“Il Paese delle Spose Infelici”, adolescenze inquiete al Sud

L'interessante opera prima di Pippo Mezzapesa sull'amicizia tra il fragile Francesco e il carismatico Zazà convince per l'ambientazione, meno come sviluppo narrativo. Dall'omonimo romanzo di Desiati.

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Una tendenza riscontrabile nel cinema italiano contemporaneo consiste in uno sguardo più o meno indagatore nel passato del nostro Paese, dovuto anche probabilmente alla difficoltà di tradurre per immagini di finzione il critico caos politico odierno delegato invece al lavoro dei documentaristi. Si pensi infatti alla Napoli anni ’70 del valido La kryptonite nella borsa o la Pisa degli stessi anni nella discreta commedia finto-cialtronesca I primi della lista di Roan Johnson con Claudio Santamaria.

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Un discorso simile si può fare per l’interessante esordio del trentunenne Pippo Mezzapesa Il paese delle spose infelici, passato in concorso all’ultima Festa di Roma. Nell’omonimo romanzo di Mario Desiati l’ambientazione è collocata nella provincia tarantina in pieni anni ’80 mentre nel film l’azione si sposta nel decennio successivo. Ruvido racconto di formazione incentrato su un gruppo di amici adolescenti appassionati di calcio, Il paese delle spose infelici focalizza l’attenzione sul fragile Francesco, detto Veleno, (Nicolas Orzella, assai spontaneo) di famiglia borghese, vessato e insultato dagli altri bulletti a colpi di "Ricchione! Ricchione!", ma adocchiato per il ruolo da portiere nella squadretta locale dal carismatico capobranco Zazà (Luca Schipani, piuttosto cinegenico), proletario sfacciatello con fratello spacciatore che aiuta ogni tanto per piccole commissioni da corriere.

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«Hai le ginocchia da femmina» lo provoca Zazà, finché Veleno non si procura una bella sbucciatura che sembra un sigillo d’ammissione nella piccola gang di sbalestrati. I ragazzini prendono così l’abitudine di masturbarsi tutti insieme – ma ognuno per sé – davanti a un film porno nell’appartamento di Veleno che però non partecipa, un poco turbato, al rito collettivo. Zazà e Veleno si prenderanno quindi una cotta per una misteriosa ragazza idealizzata come una Madonna laica, Annalisa (Aylin Prandi, quasi una acerba Golino ante litteram), reduce da un minacciato suicidio dal tetto della chiesa del paese e dimorante solitaria in una villa semiabbandonata.

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Le inquietudini adolescenziali, i primi fremiti del cuore, la deriva pedagogica dovuta all’assenza dell’autorità famigliare e dell’istituzione scolastica, sono filmati con un’adesione partecipata che ricorda il buon cinema di Antonio Capuano e la sua macchina da presa adorante i corpi in formazione dei giovani protagonisti. Se le molte piste narrative affrontate avessero avuto uno sviluppo adeguato, dando compiutezza alle varie vicende rappresentate, il film ne avrebbe indubbiamente giovato: la sceneggiatura è invece piuttosto incerta e rende percepibile un certo sfilacciamento del racconto, la cui immersione in un contesto piuttosto degradato, tra periferie fangose e mostruosità edilizie post-industriali, è invece resa con efficacia.

Si può vedere.

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