Undici anni dopo Nine, deludente musical firmato Rob Marshall ispirato a 8 e 1/2 d Federico Fellini, Sophia Loren è tornata sul set grazie al figlio Edoardo Ponti, con il quale aveva già girato il corto La Voce umana, per un nuovo adattamento di “ La vita davanti a sé“, romanzo di Romain Gary visto al cinema nel 1977 grazie a Moshé Mizrahi, che vinse l’Oscar come miglior film straniero, e con Simone Signoret in trionfo sia ai David che ai Cesar come miglior attrice.
In arrivo su Netflix il prossimo 13 novembre, La vita davanti a sé è ambientato a Bari e racconta la storia di Madame Rosa, anziana ebrea ed ex prostituta che per sopravvivere negli ultimi anni della sua vita ospita nel suo piccolo appartamento bimbi in difficoltá. Tra questi, anche se inizialmente riluttante, un turbolento dodicenne di strada di origini senegalesi, di nome Momò, che la rapina al mercato. I due sono agli antipodi, per età, etnia, carattere e religione. Una relazione da subito conflittuale che presto si trasformerà in una profonda amicizia, perché sotto sotto anime affini…
Un adattamento volutamente e orgogliosamente inclusivo, quello sceneggiato da Ponti, che sposta le vicende narrate nel capolavoro di Gary dalle banlieu di Belleville alla Bari di oggi, contemporanea, tra quegli ’emarginati’ che la società spesso tiene volutamente ai margini, alimentando una discriminazione che non conosce fine. La migliore amica di Madame Rosa, Lola, è una donna trans, una mamma costretta a prostituirsi per guadagnarsi da vivere e mantenere il figlio. Una donna ripudiata dalla famiglia proprio perché transessuale, che l’anziana Rosa, donna dal passato doloroso e indimenticato, tosta e diretta, aiuta come può, badando al piccolo. Tra le due c’è un’amicizia sincera, un affetto duraturo, un rispetto totale. Una Loren che non fugge dai suoi 86 anni splendidamente portati, con capelli d’argento e rughe segnate da un Olocausto marchiato a vita sul braccio.
Una donna stanca ma ancora battagliera, fragile e orgogliosa, non a caso benvoluta dall’intero quartiere, che paga sempre più gli anni che passano con pericolosi vuoti di memoria, che inevitabilmente la riportano con i ricordi all’infanzia passata sotto le bombe, tra i campi di concentramento. C’è una scena particolarmente drammatica, ambientata sulla terrazza di un palazzo condita dai panni stesi, in omaggio al capolavoro di Ettore Scola Una Giornata Particolare, che vede madame Rosa sotto il diluvio, seduta, con gli occhi a fissare il vuoto, un vuoto chiamato Olocausto. Sophia Loren, nel 1962 premio Oscar come miglior attrice grazie a La Ciociara, punta ad una nomination dopo 55 anni d’attesa (Matrimonio all’italiana, 1965, sconfitta da Julie Andrews con Mary Poppins), e a 30 anni esatti dalla statuetta alla carriera ricevuta nel 1991.
Un monolite del cinema italiano e internazionale tornata sul set per interpretare un ruolo tanto impegnativo quanto impeccabilmente indossato, con efficacia emotiva e interpretativa. Il film di Edoardo Ponti, che fatica inizialmente a carburare, paga un’evoluzione esageratamente rapida, un coming-of-age lampo del giovanissimo co-protagonista (il bravo ed esordiente Ibrahima Gueye), che in 90 minuti passa troppo rapidamente dalla criminalità di strada condita da un carattere introverso e aggressivo ad una bontà d’animo finalmente svelata, a lungo nascosta da un volto volutamente teso, restio ai sorrisi.
Eppure anche se imperfetto come adattamento, è praticamente impossibile non farsi trascinare dall’emotività e dalla tenerezza del terzo e ultimo atto, che vede queste due anime tanto distanti avvicinarsi, abbracciarsi, aiutarsi a vicenda, volersi profondamente bene. Un’opera che guarda alla tolleranza, al perdono, all’amore, all’inclusione totale, con la voce di Laura Pausini ad accompagnare i titoli di coda grazie al brano portante Io Sì (Seen), scritto per lei da Diane Warren e in odore di nomination Academy.
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