Forse non era mai successo che il cast femminile di un film ‘mainstream’, oltre alle classiche prove fuori set, fosse invitato a seguire seminari per essere introdotto alla cultura lesbica. Eppure Spike Lee, regista del curioso ‘Lei mi odia‘ in uscita nelle sale italiane, li ha fortemente voluti: «Non ho chiesto a nessuno le preferenze sessuali – spiega Lee – ma volevo essere sicuro che tutti si sentissero a proprio agio. I seminari servivano ad avere il background necessario per la costruzione del personaggio di ciascuna delle attrici». Il produttore Preston Holmes ha anche sottolineato che «Spike voleva essere informato sulla cultura lesbica da chi di dovere: non aveva alcuna intenzione di scivolare nei cliché».
A lezione di lesbismo
A dar lezioni di ‘istituzioni saffiche’ è stata Tristan Taormino, giornalista ed educatrice sessuale, collaboratrice di ‘Paper Magazine’, ‘The Village Voice’ e anche ‘Penthouse’. Il corso intensivo si è svolto in due settimane, per due ore al giorno: le allieve-attrici si sono dimostrate molto interessate. Kerry Washington, che nel film interpreta il ruolo di Fatima, scopertasi lesbica dopo la fine del fidanzamento col protagonista Jack, ha descritto l’esperienza come «molto utile a livello informativo. La docente ha parlato di sesso lesbico e identità, abbiamo anche fatto dei forum di dibattito. Abbiamo raggiunto l’obiettivo: essere più a nostro agio col materiale che stavamo per portare sullo schermo. Rappresentare le lesbiche sullo schermo in tutta la loro diversità e complessità è un passo nella giusta direzione: permette al pubblico di fare oneste discussioni sull’identità sessuale».
Il primo film ‘gay’ di Spike Lee
‘Lei mi odia’ è stato poi girato molto in fretta, in soli 28 giorni, interamente a New York City, all’insegna dell’economia: è stata usata pellicola da 16mm poi trasferita in digitale. Se la tematica sociopolitica è da sempre presente nei film di Spike Lee, è la prima volta che il regista americano affronta la tematica omosessuale (indipendentemente dal colore della pelle) e le implicazioni morali sul concepimento gay nonché il lucroso business della filiazione in provetta, il tutto con un tono originale di commedia satirica. E il bizzarro cappello introduttivo che lo fa sembrare un thriller sulla corruzione della multinazionali (vedi al capitolo Enron e Worldcom) vuole puntare il dito sulla pericolosità dell’incontrollato potere delle corporazioni aziendali: «questi gruppi hanno ai vertici delle persone deboli. Ho deciso di contrapporre questo tipo di inchiesta con l’idea del sesso e della procreazione. Questo film è anche una cronaca dell’ipocrisia dell’America sui valori legati al sesso. La storia di ‘She hate me’ è molto semplice: parla di sesso, avidità, soldi e politica».
La trama
Il John Armstrong detto Jack (il volitivo Anthony Mackie che rivedremo nel prossimo progetto del regista, ‘Sucker Free City‘ sulle gang di San Francisco) viene licenziato dopo aver denunciato i suoi capi per un imbroglio finanziario che ha portato al suicidio uno degli scienziati dell’azienda biotech. Nel frattempo la sua ex Fatima, scopertasi lesbica, gli offre dei soldi per darle un figlio: l’idea lo stuzzica, lui accetta e finisce nel giro della fecondazione seriale, arrivando a guadagnare diecimila dollari a inseminazione. I problemi sopraggiungono quando viene ricattato dal boss Bonasera padre di Simona, una delle future lesbomadri (un’improbabile Monica Bellucci che sfoggia il pancione in cui cresceva Deva, sua primogenita ora su tutte le copertine dei rotocalchi rosa).
Amazzoni saffiche in carriera
Se il tono scanzonato rischia la parodia da commedia scollacciata, Lee è invece molto abile a ironizzare con arguzia sull’argomento (imperdibile la scena woodyallenesca con gli spermatozoi dalla faccia umana – uno ha proprio il volto della Bellucci – che inseguono un ovulo sfuggente) e a dare dignità a una questione serissima che ha il suo senso compiuto nel finale documentaristico forse fin troppo didascalico. La comunità lesbica tratteggiata è quella ‘upper class’ delle amazzoni saffiche in carriera o comunque danarose a quanto pare molto variegata (Jack si ritrova in casa la più varia tipologia del genere, dall’algida top manager zen alla ruvida ‘gangsta dyke’). Ma più che analizzare la questione da un punto di vista specificamente sociologico, Lee affronta un dramma morale che ormai non investe più solo gli Stati Uniti ed è sintetizzato benissimo dagli splendidi titoli di testa in cui i dollari sventolano come bandiere nazionali: coi soldi ormai si può comprare tutto? «C’è sentore che la gente farà di tutto per il denaro» aggiunge Lee «ogni essere umano deve fare una scelta e questa scelta dipende dalla morale. Ma la gente deve avere la responsabilità delle conseguenze di queste scelte. Volevo sollevare degli interrogativi sul declino dell’etica in America: dall’ufficio alla camera da letto».