Cos’è l’omonazionalismo? Qui ve lo spieghiamo bene

L’omonazionalismo interroga in maniera profonda il rapporto fra cittadini LGBTI e lo Stato, e fra minoranze oppresse all’interno delle realtà statuali nazionali.

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Nel 2007, Jasbir Puar ha lanciato nel suo libro Terrorist Assemblages: Homonationalism in Queer Times, il fondamentale concetto di omonazionalismo per indicare, come i principi di “accettazione” e “tolleranza” nei confronti dei cittadini LGBTI siano diventati oramai uno strumento per misurare la credibilità dei singoli stati nazionali. Per Puar, omonazionalismo è diventata una categoria analitica fondamentale per capire e storicizzare la svolta “gay-friendly” delle nazioni occidentali degli ultimi anni. Una svolta non estetica, ma valoriale e per questo storica, segnata dall’entrata di (alcuni) omosessuali nell’alveo della piena cittadinanza e dunque della protezione statale. Alcuni omosessuali, è bene ricordarlo: possibilmente bianchi, che hanno avuto la fortuna di nascere nella parte “giusta” del mondo.

Quando si parla di omonazionalismo, però, si tende a ridurre il tutto allo spostamento su posizioni “di destra” di una parte della comunità LGBTI globale una volta ottenuti i diritti civili e il matrimonio. La stampa internazionale, per esempio, ha dedicato molto spazio agli esponenti dichiaratamente gay venuti fuori nelle fila non soltanto della destra conservatrice, ma anche estremista (vedi i casi dei movimenti di Marine Le Pen, Farage o Donald Trump).  Il fulcro di questo spostamento ideologico sta nel rapporto complesso fra mondo LGBTI e le comunità etniche e di migranti, accusate di essere omofobe e bigotte. Questa lettura risulta però abbastanza semplicistica perché manca di un approccio intersezionale.

Lo spostamento di voti a destra riguarda alcuni segmenti delle comunità LGBTI – in linea con quanto accade nel resto della popolazione, dove i movimenti razzisti e xenofobi crescono a dismisura in certi ceti o specifici ambienti sociali. In questo senso, l’orientamento sessuale non basta da solo a spiegare il fenomeno, esso interseca altre categorie come la classe sociale, il livello d’istruzione, la provenienza geografica. Il punto cruciale semmai è che il populismo xenofobo, fino all’altro ieri orgogliosamente omofobo, utilizza sempre di più le identità LGBTI per costruire e alimentare odiosi discorsi razzisti – in particolare islamofobici – all’interno della stessa comunità gay. Nel nostro Paese ciò sta avvenendo in sordina, senza che si apra una discussione franca a riguardo. Negli altri paesi, come l’Inghilterra, invece le associazioni gay stanno affrontando la questione con maggiore consapevolezza. Come ho scritto più volte, pesa la mancanza (almeno in Italia) di canali seri di dialogo fra universo queer e comunità di migranti. Eppure esse vivono spesso fianco a fianco negli stessi quartieri dei grandi centri urbani. Ciò produce inevitabilmente incomprensioni e diffidenza reciproca.

Come scrive Jasbir Puar, però, l’omonazionalismo è molto più di un semplice “razzismo in salsa gay”. Piuttosto interroga in maniera più profonda il rapporto fra cittadini LGBTI e lo Stato, e fra minoranze oppresse all’interno delle realtà statuali nazionali. Per molti anni, lo Stato “etero-normativo” è stato vissuto come un nemico da parte dei cittadini LGBTI.  Secoli di persecuzioni, messa fuori legge, insopportabili discriminazioni e crudeltà avevano alimentato un rapporto che chiamare conflittuale sarebbe riduttivo.

Il bel film HBO di qualche anno fa, The Normal Heart, racconta bene questa tensione ai tempi dell’inizio dell’epidemia di AIDS. Molti in quegli anni pensarono, per esempio, che i governi non facessero abbastanza per arginare l’emergenza, poiché l’HIV/AIDS veniva vissuta come una malattia essenzialmente dei gay. Con l’apertura della stagione dei diritti, il rapporto con il potere statuale è sostanzialmente cambiato: i diritti della comunità LGBTI sono diventati parte integrante dell’identità nazionali, entrando prima negli ordinamenti e nelle costituzioni e poi nel sentire comune dei popoli. Nella comunità LGBTI sono sorti discorsi nazionalistici e patriottici, che prima d’ora avevamo raramente sentito. L’identità politica della comunità LGBTI si è così riconciliata con la struttura di potere dello Stato nazionale e neoliberista, lottando per essere “accettata” e legittimata nel suo sistema valoriale.

In cambio, i “nemici” del movimento LGBTI, un tempo protetti e coccolati, sono diventati minoranza, mentre l’omofobia è stata riconosciuta, almeno da un punto di vista formale, come una piaga sociale alla stregua di razzismo e xenofobia. Molti teorici queer vedono in questo processo qualcosa di necessariamente negativo, il punto però non è quello, piuttosto è utile storicizzare i rapporti fra comunità LGBTI e entità statuali/comunità nazionali per capire meglio l’oggi. Anche perché il processo di costruzione delle nuove identità LGBTI pienamente riconosciute all’interno degli Stati nazionali, ha coinciso con la formazione di un nuovo “altro” simbolico, come scrive Puar, nell’era post undici settembre: l’Islam.

Per questo motivo, l’omonazionalismo, evidentemente, interseca in maniera preoccupante i discorsi razzisti dei movimenti anti-migranti e produce insidie anche per i cittadini LGBTI.  Innanzitutto perché alimenta una visione essenzialmente culturale dell’omofobia, che è invece un problema strutturale: come se fosse una questione che riguarda solamente le comunità islamiche, assolvendo in toto le società bianche e occidentali. La dimostrazione plastica di ciò sta nella frase pronunciata da Donald Trump sul palco della convention repubblicana di Cleveland: “Farò tutto ciò che in mio potere per proteggere i nostri cittadini LGBT dalla violenza e dall’oppressione di un’odiosa ideologia straniera” ha detto il candidato repubblicano, incurante del fatto che i cittadini gay vadano protetti anche da moltissimi di quelli che nella stessa platea lo applaudivano. In secondo luogo, utilizza le istanze di una minoranza oppressa per costruire nuove forme di oppressione nei confronti di un altro gruppo. Omofobia, islamofobia, antisemitismo, xenofobia, misoginia sono facce della stessa medaglia. Per citare di nuovo Puar, alla base c’è una visione restrittiva e neoliberista della cittadinanza, che propone l’accesso solo di alcuni segmenti di popolazione, alle spese dell’espulsione di altri gruppi.

Riferimenti bibliografici:

Puar J (2007) Terrorist Assemblages: Homonationalism in Queer Times. Durham: Duke University Press

Puar J (2013) Rethinking homonationalism. International Journal of Middle East Studies 45:336–352

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E pperò 18.11.16 - 17:25

purtroppo l'occidente ha insegnato l'omofobia al mondo.......invece per l'islamofobia c'è una cura: leggere il Corano,che non è un libro segreto e clandestino ma è un libro che viene venduto in libreria.se si ha persino una certa sensibilità che va oltre la lettura letterale,senza per ciò doverne abbracciare la religione,viene fuori una serie di canzoni-poesie commoventi.il tutto condito da Paradisi dove secondo il mondo pre-coloniale si aggiravano non solo vergini devote al loro profeta ma anche efebi......

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Giovanni Di Colere 25.9.16 - 18:27

Mah... sono d'accordo che è molto semplicistico ragionare per schemi ma la cultura dei paesi e degli immigrati islamici è indubbiamente prevalentemente omofobica così come per esempio la cultura nei paesi africani centrali o in paesi come la giamaica. Anche tra gli afroamericani per anni c'è stata una cultura molto intollerante nei confronti dei gay. Ci vorrà mokto tempo prima che i paesi arabi accettino di depenalizzare l'omosessualita. E molti più per togliere discriminazioni. Certo l'omofobia è diffusa anche nei nostri paesi democrazie liberali occidentali ma non facciamo paragoni con chi comegli islamici condanna a morte i gay. Infine: ho molti amici gay inglesi che votavano laburista ma con le idee veterosocialiste e dirigiste di Corbyn non voteranno più a sinistra.

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