Non c’è alcun dubbio sull’importanza (anche per i bambini) di un rapporto equilibrato con gli animali. La psicologia ha dimostrato che le fusa del gatto alleviano gli stati d’ansia, che la compagnia di un cane lenisce la solitudine, ridimensiona il narcisismo, apre la mente ai punti di vista altrui, ripristina il concetto di uguaglianza. La pet therapy, ovvero l’uso degli animali domestici come coadiuvanti o aiuti terapeutici, praticata da decenni negli Stati Uniti, è sempre più diffusa anche da noi: duemila mammiferi ed altrettanti uccelli, per un totale di quattromila animali, vengono utilizzati in Italia per questa terapia (fonte Eurispes). Eppure non esiste ancora una legge che riconosca formalmente e concretamente questo tipo di cura, ma solo una proposta presentata tre anni fa in Parlamento. Ma com’è nata la pet therapy? Era il 1961, quando lo psichiatra americano Boris Levinson si accorse che più di lui poté il suo cane: il bambino autistico che aveva in cura giocava col cane dello psichiatra e ne ricavava enormi benefici. Oggi ci sono cani-guida per ciechi, hearing dogs (cani per persone con problemi uditivi), cani di servizio affidati a disabili fisici, cani-sociali che migliorano le condizioni psicologiche e fisiche di bambini, adulti, anziani. Cavalli per riabilitazione motoria e disturbi psichici. Delfini per handicap psichici e fisici, autismo e gravi depressioni. E anche uccelli e pesci. Ma non è tutto oro quel che riluce. Alcune associazioni animaliste sono contrarie alla pet therapy perché non considerano prioritaria la guarigione umana ma il rispetto dell’animale, forma di vita autonoma che non deve essere usata o sfruttata nemmeno come mezzo terapeutico. Queste associazioni chiedono e si chiedono che fine fanno gli animali che aiutano a guarire, una volta che hanno esaurito la loro funzione. E denunciano il prischio che conigli, uccelli o cani vengano ignorati e tenuti in gabbia quando non usati per la terapia, senza che nessuno prosegua con loro un rapporto. Sarebbe invece importante, spiegano gli animalisti, consentire ad un paziente guarito l’adozione dell’animale che ha contribuito alla sua guarigione. Ed esercitare controlli perché i diritti degli animali vengano rispettati anche una volta esaurita la funzione terapeutica. Altro esempio. Nel 1997 è stata emanata una circolare ministeriale ai direttori delle carceri perché concedessero ai detenuti di ospitare piccoli animali da compagnia, come gatti, pesci e uccellini. Gli animalisti pensano però che la strada verso il recupero dei detenuto non sia quella di creare nuovi prigionieri. Considerano invece valida la proposta del senatore Athos De Luca di installare nel carcere di Rebibbia una voliera di uccelli da curare in collaborazione con la Lipu, nonché un rifugio per cani abbandonati. E se un detenuto possiede un cane, bisognerebbe sempre consentirne l’accesso ai colloqui: un bell’esempio di pet therapy che ha già visto le sentenze favorevoli di due tribunali italiani. Per quanto riguarda gli istituti geriatrici, esiste negli Stati Uniti una pet therapy che solo ora comincia a farsi strada in Italia: come nel Bergamasco, dove l’Asl ha appena avviato un esperimento nelle case di riposo.
I canili vengono incaricati di favorire l’adozione dei loro cani da parte di persone anziane. In questo modo il beneficio è reciproco: il cane, che altrimenti vivrebbe tutta la sua vita in un canile, trova una casa e un legame duraturo e gli anziani ricavano quei grandi benefici descritti anche nella letteratura scientifica dal rapporto con l’animale. Speriamo che l’esperimento di Bergamo faccia da apripista, in modo che cani e gatti vengano ammessi in tutte le case di riposo, e una persona non più in grado di vivere da sola non debba spezzare il legame con il suo compagno animale. Infine gli ospedali: nel 1996 l’associazione “Club Fantasia Wigwam” con il Progetto “La Fattoria in Ospedale” fa entrare degli animali nel Dipartimento di pediatria dell’Ospedale di Padova. Il progetto consiste nel portare alcuni cuccioli (cagnolini, anatroccoli, pulcini, coniglietti, cavie, due caprette, un pony, un maialino) tutte le settimane, per un mese. Ma attenzione: l’introduzione tout-court negli ospedali di animali non ha senso se riproduce la realtà degli zoo o peggio dei giocattoli che si usano per divertirsi e poi si gettano via. Inoltre, se si abusa dell’animale il potenziale terapeutico del rapporto con quest’ultimo è al minimo. E in questo caso l’esito è sempre diseducativo.
di David Fiesoli
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