PETTEGOLEZZI DA SCALA

La prima del Trovatore, tra fischi, ministri e primedonne. Le 'mises' e le acconciature, col nero che trionfa…

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MILANO. La prima del Teatro alla Scala di Milano è una piramide scivolosa le cui fondamenta – il pubblico – sono di grandezza inversamente proporzionale al suo esiguo vertice – una vera e propria trinità indissolubile: il direttore musicale, la Fondazione e il sovrintendente.Tanto difficile e lunga è la scalata quanto facile e ripida la discesa: tuttavia le pietre appuntite e taglienti poste al suo vertice sono di tal natura che soltanto un terremoto che ne scuota la base può farne vacillare la sommità.
L’eccezione alla regola però, più di un colpo di stato o di una rivoluzione, è rappresentata da un piccolo suono, fastidiosamente incancellabile: il fischio.

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Non esiste decibel o grado della scala Mercalli che sia neppur lontanamente efficace a far tremare quel brontosauro granitico del Piermarini quanto i "buu" dei loggionisti o di chi per essi – c’è chi giura, infatti, che molte contestazioni di quest’anno arrivassero addirittura dalla platea e dai palchi.
Un Trovatore, poi, diciamo un sette dicembre, per di più all’inizio dell’anno delle celebrazioni verdiane basterebbe a far venir le vertigini anche a chi alle vette elevate ci è abituato.
Ma occorre procedere con calma per evitare come archeologi sprovveduti di perdersi nei labirinti dei pettegolezzi, dei comunicati stampa, delle versioni ufficiali e delle ufficiali smentite.
La base della piramide: il pubblico.
E’ curioso come la prospettiva nei teatri all’italiana moderni sia ribaltata rispetto a quella della piramide: la parte del pubblico più determinante infatti è posta in alto – nel loggione – mentre quella che di solito è la più consenziente e più ricca è posta in basso – nella platea soprattutto oppure nei palchi meglio solo se centrali o di proscenio.
Chiuso, riaperto, richiuso, risistemato e poi tagliato per metà ma messo a sedere, il loggione non ha mancato l’appuntamento più importante di tutto il suo ormai scarno carnet da ballo: le contestazioni della prima del Trovatore.
Tutto comincia bene ma tra la fine dell’aria della Pira e l’inizio dell’ultimo atto si inscena un teatro nel teatro, un copione di botta-risposta tra melomani incandescenti e maestro concertatore da far invidia a Pirandello: la pietra dello scandalo è il mancato do di petto nell’aria del tenore "Di quella pira".
"Vergona" si urla dall’alto con il contrappunto di alcuni "buu". In basso, intanto un timido mormorio di disapprovazione accompagna gli applausi. Ma non è finita.
"Non c’entra il do" continua una voce nervossissima in alto "la colpa è della direzione!".
Strali, bizze e fulmini sul volto del maestro che girandosi di tre quarti risponde "Non trasformate l’anno verdiano in un circo equestre". E si ricomincia con la scena della Torre.
Tutto fila liscio nell’ultimo atto tanto che la scena tra Leonora e il suo arrapato pretendente il Conte di Luna viene calorosamente applaudita.
"Calpesta il mio cadavere ma salva il Trovator" conclude Leonora avvelenandosi per non finire tra le lenzuola del Conte.
Alla fine tanti applausi, un po’ di buu per il maestro e tutti gli addetti ai lavori chiamati sul palcoscenico per appoggiare l’operazione Trovatore 2000.
Il fischio ha incrinato il vertice? Ai posteri l’ardua sentenza.
Ma torniamo alla piramide: un gradino più in alto sta il Palco Centrale.
Meta ambita, sancta sanctorum se ne sta come un tabernacolo in bella mostra di fronte al palcoscenico, una dichiarazione di guerra tra prime donne.
Gli anni ’80 sono tornati? A vedere otto ministri seduti uno si aspetterebbe di incontrare Craxi nel ridotto dei Palchi mentre chiacchiera con Ornella Vanoni o con Sandra Milo.
Prima degli accordi iniziali è la presenza dei ministri ad inaugurare un valzer di polemiche.

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Un assente assessore regionale fa sapere "E’ intollerabile che otto ministri vengano a sfilare in Lombardia mentre in tutti i modi il governo sta penalizzando la regione". Gli invitati non raccolgono ma si limitano ai commenti sull’opera. Che ovviamente sono tutti inulti e decisamente vaghi.
Il pubblico elegante, nel frattempo, è troppo impegnato a mettere in scena la propria premiere per accorgersi della bagarre che sta avvenendo qualche piano più su. Quella cartina tornasole del gusto vorrei-e-posso pompier-trota nuziale rappresentato dalle damazze milanesi ha optato quest’anno per la sobrietà dei costumi e per la sontuosità dei gioielli. Bandito il rosso – si farebbe pendant con le poltroncine e le tendine dei palchi – e mal tollerati i colori, la cornice ideale per rappresentare il lusso sfrenato delle toilettes è stato il nero. Marinella di Capua indossava un collier con guardia del corpo incorporata prestato dalla maison Chanel mentre la moglie del sovrintendente sfoggiava un Buccellati incastrato in uno stranamente sobrio Ferrè. Altre signore, invece, per lo più romane si mormora, sfoggiavano il vero lusso: niente griffe o lampadari da nuoveaux riches ma soltanto i tesori di famiglia, semmai con la montatura adattata.
I commenti, che a teatro non si fanno mai ( si applaude o non si applaude ma niente di più ), si sono svelati nelle cene del dopo prima: a Palazzo Marino i politici con un menù da Lumbard austerity; alla Società del Giardino gli artisti con un menù verdiano-ruspante; al Toulà o al Savini gli altri con i soliti champagne e fois-gras.
In alto – o in basso – ma anche a destra e sinistra, la compagnia di canto è stata la vera sorpresa della serata. Né contestata né troppo applaudita.
Occorre sapere che domandare agli "esperti" un’opinione sulle voci o sulle interpretazioni è come chiedere al processo di Biscardi un’opinione sulla scelta di un CT per la nazionale di calcio: oltre che essere inutile è anche fazioso, fuorviante e confuso. Infatti la distanza che separa un pallone da calcio dalle corde vocali di un cantante è più o meno nulla in fatto di pareri illustrissimi di chi si professa un intenditore solo perché va allo stadio o all’opera. Il maestro Muti aveva già ribadito in una lezione all’Università Statale il suo duplice coraggio nell’affrontare un Trovatore in filologico – ovvero senza acuti e rispettando le indicazioni di verdi sul primo spartito dell’opera – e soprattutto scegliendo una compagnia di canto quando a sua parere non ne esiste nessuna oggi. La Frittoli-Leonora ha studiato a sufficienza da non deludere nessuno; Nucci-il Conte è una vecchia volpe con qualche pelo grigio; Li Citra-Manrico un giovane Trovatore spericolato e Urmana-Azucena una zingara liederistica. Quanto alla regia, massi sospesi su masse schiacciate sotto cattedrali in rovina: unite tutto, spegnete la luce e accendete un faro blu.
Il più bel commento alla serata viene da uno dei cantanti, Leo Nucci, quando risponde a chi gli chiede quale sia delle sue 150 interpretazioni di Trovatore la più pittoresca: "Beh, questa, non c’è dubbio. Non mi sono mai divertito tanto".
Beato lui.

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