Al suo secondo romanzo, la scrittrice irlandese trapiantata a Berlino, Naoise Dolan, appare ancora più matura. Il suo esordio Tempi eccitanti (Atlantide), che è stato tradotto in oltre venti paesi, diventerà presto una serie tv. E La coppia felice ne condivide la visione e la lingua – sempre straordinariamente effervescente e svelta – raccontando la storia di Celine e Luke, entrambi bisessuali, una giovane coppia che decide repentinamente di sposarsi. Intorno a loro, un coro irresistibile di personaggi queer e millennial, che si interrogano su sé stessi, sul mondo, sul ruolo dell’amore oggi.
Abbiamo intervistato Naoise Dolan.
Celine e Luke, i protagonisti del romanzo, stanno per convolare a nozze, ma non sono affatto convinti di questa scelta. Perché vogliono sposarsi, allora? Cosa rappresenta il matrimonio?
Il matrimonio, per loro, è qualcosa di astratto. Celine tende a fare alcune cose in automatico, solo perché vanno fatte. A lei, alla fine, interessa soprattutto fare la musicista, il resto viene in secondo piano. Forse vede nel matrimonio l’opportunità di suonare senza pensare ad altro. Per Luke è una faccenda di status, sposarsi sarebbe la dimostrazione di essere riuscito a combinare qualcosa, di essere cresciuto. Queste motivazioni, però, non sono specificate nel romanzo. Ogni lettore può raggiungere le proprie conclusioni.
Matrimonio e queerness: da un lato, per le persone queer, il matrimonio è ancora molto spesso qualcosa che non può essere dato per scontato. È ancora un diritto da rivendicare. Dall’altro lato, però, il matrimonio è considerata un’istituzione vecchia, eteronormativa, borghese. Come ti poni nei confronti di questa contraddizioni?
Voglio descrivere persone queer che non sono speciali. Le persone queer non devono necessariamente avere idee radicali. Ho enorme stima di chi lotta per il cambiamento, ma bisogna constatare che ci sono persone della comunità LGBT+ che fanno scelte di vita completamente diverse. Non c’è un solo modo di essere queer. È quello che fa anche Bottoms, il film di Emma Seligman, che mette in scena personaggi «gay, brutti and senza talento».
L’eterormatività e il patriarcato influenzano le vite delle persone queer?
Sì, è inevitabile. Viviamo tutti nella stessa società, nessuno può evitare di esserne influenzato. Allo stesso tempo, la queerness chiede di farsi domande più velocemente, di mettere in discussione alcune cose che di solito vengono date per scontate.
La coppia felice racconta anche il rapporto tra non-monogamia e tradimento: la monogamia è un’idea ancora patriarcale?
Dipende, molte coppie aperte – eterosessuali o omosessuali – hanno un modo di vivere estremamente patriarcale. A Berlino, dove vivo, vedo molte coppie non-monogame: alcune mi sembrano felicissime, altre no. Ciò che importa alla fine è la comunicazione, la fiducia, al di là di tutto.
Tutti i personaggi del tuo romanzo vivono in una distanza apparentemente irraggiungibile: Celine si chiude nella sua passione per il pianoforte, Luke vive nel silenzio e spesso scappa, altri cercano rifugio nelle droghe. Cosa cercano lì? Perché si allontanano?
Cercano lo spazio per essere più naturali, più liberi, per vivere oltre le aspettative degli altri. Loro non sanno cosa vogliono essere, ma almeno quando sono da soli possono smetterla di fingere di essere qualcosa che non sono.
Celine ha un talento raro per la musica, la sua unica ragione di vita. È possibile amare qualcuno quando si deve convivere con un talento – e con un’ossessione – così ingombrante?
Gli artisti sono sempre un po’ egoisti. Per la famiglia, per i partner, non è facile stare accanto a un artista. È così anche per me: quando scrivo, spesso mi eclisso, non rispondo ai messaggi, non chiamo la domenica. Io però non voglio essere solo un’artista, quindi faccio lo sforzo di essere presente nelle mie relazioni. Per Celine è diverso: lei sceglie sempre il pianoforte.
Parliamo di sesso. Nel romanzo c’è, ma è sempre depotenziato, sempre insoddisfacente e stanco. Che ruolo ha il desiderio erotico nella tua storia?
Per i protagonisti non è un tabù, ne parlano tranquillamente. Il sesso qui non crea difficoltà e questo non aiuta la trama. La trama ha bisogno di difficoltà, di inciampi. Qui le difficoltà sono altre: conoscere sé stessi, fare scelte, conoscere gli altri. È di questo che voglio parlare.
Il sesso non serve a niente perché non è conflittuale: lo dice anche Sorrentino in È stata la mano di Dio.
È così, la trama del romanzo ha bisogno di conflitti.
Di te scrivono che sei una scrittrice generazionale, ti senti portavoce dei tuoi coetanei?
In parte credo che sia impossibile non essere un po’ generazionali: se volessi scrivere come una boomer, non sarei capace. Però non voglio la responsabilità di rappresentare gli altri, voglio rappresentare i miei sentimenti. Poi, se gli altri pensano che i miei sentimenti siano validi anche per loro, meglio. È un grande onore per me mettere in scena valori condivisi, ma questa è una cosa che devono dire gli altri.
La domanda più difficile di tutte: cos’è per te l’amore oggi?
Qualcosa che prescinde dalla coppia. Dunque, una faccenda specificatamente queer, in un certo senso. Ai tempi dell’HIV, per esempio, l’amore è stato ciò che ha spinto le donne queer a stringersi attorno agli uomini che venivano stigmatizzati o abbandonati. Amare significa, oggi, avere una famiglia d’elezione. L’amore riguarda tutte le relazioni umane.
Come per bell hooks, che scrive che l’amore è uno strumento di crescita spirituale e collettiva.
L’amore fa sperare che un cambiamento sia sempre possibile.
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