NON ACCETTO IL MIO CORPO

Un lettore 25enne, con un difficile percorso di autoaccettazione alle spalle e un pessimo rapporto col padre violento, è alle prese con la sessualità: "Desidero una relazione fissa".

NON ACCETTO IL MIO CORPO - leo11 7 4 - Gay.it
8 min. di lettura

Salve dottor Iaculo,
mi chiamo Emanuele e ho 25 anni, mi sono reso conto di essere omosessuale più o meno quando ne avevo 21 e da allora frequento lo studio di un analista. Ci ho messo un po’ di tempo ad accettarmi, ma credo quest’anno di aver fatto parecchi progressi: sono riuscito a parlare di me a mia madre e ad un’amica che sapevo essere lesbica, ho conosciuto diverse persone tramite la rete e ne ho anche incontrate un paio. Anche con il mio analista riesco ora ad essere più diretto e conciso, prima non riuscivo ad affrontare “di punta” certi argomenti.
Il mio problema principale rimane ora la timidezza fisica, che per certi aspetti rasenta quasi la fobia, e che credo abbia contribuito ad allungare il mio processo di autoaccettazione. Per intenderci, alla mia età sono ancora vergine, e non ho mai avuto contatti fisici di alcun tipo.
Non so se possa dipendere dal fatto che nei confronti di mio padre ho sempre provato diffidenza e paura…. ora sono sei anni che non lo vedo. Ho convinto ed aiutato mia madre a chiedere il divorzio dopo che il vizio di bere di mio padre era peggiorato, ma ho il sospetto che durante l’infanzia e l’adolescenza mi abbia arrecato dei danni abbastanza gravi. Per essere più chiaro: mio padre aveva un carattere polemico ed aggressivo, ed ha intriso di violenza psicologica il nostro rapporto. È successo di rado che mi picchiasse seriamente (pugni nello stomaco, sulla testa e via dicendo), ma mi strapazzava spesso, ben sapendo di spaventarmi e di farmi anche male, in certa misura. Mi prendeva ad esempio per i polsi e mi torceva le braccia, mi accartocciava i padiglioni auricolari, mi prendeva a pedate sul didietro e via dicendo. Di frequente si metteva ad urlare come un ossesso per delle sciocchezze, e mi fissava con la faccia paonazza e gli occhi fuori dalle orbite, oppure mi veniva incontro a pugni serrati, ecc. In poche parole: io di lui avevo paura. Una volta ha fatto finta di strangolare mia madre: è il mio primo ricordo…! Ma mia madre era ed è una donna forte, ed ha saputo ribellarsi. Anche io crescendo ho iniziato a ribellarmi, trovando in lei l’appoggio necessario, ma ancora oggi capita che qualcuno intorno a me faccia un movimento un po’ brusco e io mi ritragga come per evitare un ceffone, se mi toccano sussulto… Per contro ho sempre trovato molto gradevole il contatto fisico con gli animali.
In passato ho avuto dei seri problemi ad accettare il mio corpo. Da piccolo cercavo di evitare in tutti i modi che qualcuno potesse vedermi svestito, anche solo in parte. Ho vissuto la mia pubertà come un incubo, non volevo crescere, odiavo vedermi addosso i segni della maturità sessuale. Ora tutto ciò è passato, anche se ci sono voluti degli anni… Anni in cui per me mostrarmi in costume, o anche solo in t-shirt e brache corte rappresentava un grosso disagio. Nonostante lo sport non mi dispiacesse ho sempre rifiutato di entrare a far parte di una squadra o una associazione, perché per me fare la doccia con altre persone sarebbe stato impensabile. Ancora adesso l’idea mi riesce indigesta. Per il resto attualmente mi accetto e ho un buon rapporto con il mio corpo, ma il sesso (o meglio l’idea del sesso) mi crea dei problemi. Trovo bellissima l’idea del sesso in un contesto relazionale, in cui ci siano anche amore, comprensione, dialogo, disponibilità…. desiderio dell’altro come persona e non solo come partner sessuale. Sono sicuro che in un contesto del genere riuscirei a viverlo serenamente, anzi con entusiasmo. Ma mi spaventano l’idea dell’avventura, del solo sesso, della botta e via, a freddo. Ho paura anche di essere tradito, usato, preso in giro… Credo che in tutto ciò ci sia qualcosa di esasperato, che mi blocca anche nel relazionarmi agli altri.
Ho letto spesso di gente che si divide tra più partner: è uno stile di vita sul quale non ho nulla da ridire (a patto che sia condotto nel rispetto degli altri), ma nel cui inquadramento non riesco a concepirmi. Io sento il bisogno di un compagno fisso, di una relazione esclusiva. Ho corrisposto per un breve periodo con uno psicologo gay, il quale mi ha detto che ho delle idee da verginella cattolica (sono ateo), che pretendere fedeltà sessuale da qualcuno è pressoché assurdo, e che il sesso ha valore di per sé, per il piacere che dà. Ma… non conta anche come uno lo vive? Secondo lei la mia è una necessità così strana? … Così illogica?
Mi sono innamorato di diversi miei corrispondenti, il fatto di sentirli ogni giorno, di avere un dialogo, mi faceva star bene, sentivo che se avessi potuto frequentarli regolarmente nel tentativo di costruire una bella storia non avrei avuto bisogno di altro.
Sento il bisogno di una persona sola, e non mi va di dividerla con nessuno. Non pretendo la storia d’amore eterna, ma che sia seria, almeno finché dura. È un desiderio così atipico nell’ambiente gay? E secondo lei, il mio rapporto con il sesso è patologico? È possibile che con il tempo diventi meno rigido? Quanto possono aver concorso le esperienze che ho vissuto in famiglia a rendermi come sono? E soprattutto, qual è secondo lei l’ambiente gay nel quale potrei sentirmi più a mio agio, considerati i miei problemi ed il mio carattere? Mi sono reso conto che un po’alla volta i miei blocchi regrediscono, ma ho bisogno di procedere a piccoli passi…
Sono timido, mi ci va del tempo per aprirmi, per sentirmi tranquillo. Non mi ci vedo in un locale o in una discoteca (non mi sono mai piaciute nemmeno quelle per etero), mi sembrano posti in cui si soffoca la comunicazione invece di incentivarla, e mi è stato ripetutamente detto che la gente ci va soprattutto per rimorchiare e basta. Pensa che per me potrebbe essere più adatta un’associazione o un circolo? Che atmosfera si respira in un’associazione? Che attività si svolgono? Ho letto che in linea di massima sono il posto migliore per incontrare persone coinvolte in relazioni impegnate, o comunque orientate verso quel tipo di stile di vita. Secondo lei è così? Saprebbe magari indicarmene qualcuna in qualche città non troppo grande e dispersiva (tipo Torino o Milano), in Piemonte, Lombardia o Liguria? Il più possibile volta a promuovere i “valori” (beh, definiamoli così) che sento appartenermi? O se no, avrebbe altre alternative da consigliarmi?
La ringrazio molto per il suo aiuto, e continuate così, siete in gamba!
Emanuele

L’idea di vivere la sessualità con un presupposto amoroso, di aspirare a un rapporto di coppia basato sull’affettività, la fedeltà, l’intimità, è legittima e nobile, ed è, prima di tutto, la tua visione della relazioni affettive. E come tale, essendo il prodotto della tua storia, della tua peculiare sensibilità, delle tue esperienze di vita, dei valori acquisiti (senza virgolette!), non va giudicata (come sembra aver fatto un mio collega con te), ma compresa e accettata per quello che è. Spetta solo a te poi stabilire, passando comunque attraverso esperienze sentimentali, se questa visione del rapporto di coppia, può realizzarsi integralmente, deve ricorrere a degli adattamenti, passare per storie e incontri probabilmente non così pieni, forse leggeri (una leggerezza che pare essere mancata nella tua vita), delusioni, inevitabili dolori… Esperienze necessarie a costruire una tua solidità e utili a predisporre al tipo di relazionalità verso cui ti orienti.
La voglia di una storia affettiva soddisfacente, di una relazione durevole, di un compagno con il quale condividere l’esistenza non credo sia cosi atipica e rara nell’ambiente gay. I gay (come le lesbiche) non hanno un patrimonio relazionale cui attingere, devono inventarsi giorno per giorno un rapporto che irrimediabilmente finisce per essere una sorta di esperimento, di azzardo, di innovazione, però, proprio perché esperienza carica di incertezze e rischi, eloquente al tempo stesso di una forte intenzionalità relazionale. Anche chi cerca solo sesso, chi si fa scopare nel più sordido dei posti da un uomo di cui non sa neanche il nome, esprime in fondo, nel suo negarlo, il bisogno di contatto e di relazione, ed insieme la paura degli stessi, il suo sentirsi inadeguato nel provare ad andarvi verso. Tu mi chiedi quanto possono aver concorso le esperienze che hai vissuto in famiglia a renderti come sei. Potrei rispondere: totalmente – così come d’altronde accade per ogni essere umano -, o perlomeno in modo molto rilevante. La matrice della tua identità si è disegnata nel rapporto con i tuoi genitori e con gli altri adulti significativi dei primi anni di vita, degli anni dell’adolescenza, di quelli successivi; ancora oggi si forgia, si trasforma, va incontro a modificazione ogni volta che hai un contatto nuovo e arricchente con l’ambiente, seppure all’interno di contorni ed ambiti già tracciati; si ammorbidisce sulla base della relazione che mantieni con i tuoi e con gli altri per te significativi, oppure si fissa e rafforza. Le esperienze primarie relative al corpo e al contatto fisico assumono poi in questo quadro un ruolo fondamentale.
Ti chiedi se il tuo modo di vivere il sesso è patologico, direi che cerchi una sessualità non disgiunta dall’affettività, una sessualità cui arrivare gradualmente tramite il dialogo, la conoscenza del partner, la disponibilità e l’amore, le cose di cui tu stesso mi parli. È patologico questo? Perché dovrebbe esserlo? È patologico chi desidera invece vivere la sessualità con una condotta più svincolata dall’affettività, più leggera, promiscua almeno per alcune fasi del proprio percorso evolutivo, se in questo trova piacere e serenità? La patologia in genere sta nella mancanza di flessibilità, in tutto ciò che appare rigido, immutabile, esclusivo. Nei blocchi della nostra capacità di “fare contatto” con l’ambiente.
Il problema per te sembra risiedere nel rapporto più largo mantenuto con il tuo sè-corporeo. Riferisci il vissuto di un corpo ferito e violato, in fasi evolutive determinanti (infanzia, adolescenza), condizionato da reiterati episodi di violenza dovuti a un padre spaventato e fragile, e quindi assoggettato a un modello di fisicità brutale. Hai ora paura di mostrare il tuo corpo, in quanto mostrarlo è già esporlo, hai paura di un contatto sessuale anaffettivo, temi in sostanza che il tuo corpo – base della tua identità – possa essere ancora così tanto ferito. Il corrispettivo squisitamente psichico di questa paura “incarnata” è rintracciabile nell’ansia di essere tradito, usato, preso in giro da un eventuale partner. Dimentichi, come spesso succede in questi casi, che le ferite più grosse sei stato già in grado di superarle (me le racconti nella lettera inviatami), trascuri che hai dovuto essere (e quindi sei) molto forte per fronteggiare quanto hai vissuto, per essere qui a narrarmelo, nel desiderare ora di porti interrogativi sul futuro della tua vita affettiva. Dici di essere stato tu peraltro ad aver sostenuto ed incoraggiato tua madre a compiere scelte impegnative quali il divorzio, ma riconosci la sua forza, non la tua!
Dici che non vedi tuo padre da circa sei anni. Non so se sia tu a non volerlo vedere, ma immagino che dovrai in ogni caso, a causa delle vicende accadute, ricucire per gradi il rapporto con il “paterno” ed il “maschile”, se non necessariamente nel provare a riavvicinare tuo padre, almeno “dentro di te”, e nei futuri rapporti con gli uomini della tua vita. Culturalmente ci si aspetta che il corpo maschile divenga, nel superamento della fase adolescenziale, strumento forte per affrontare affermativamente il mondo esterno. Il processo di identificazione con il “maschile” presuppone il dover far proprio – anche se non in modo stereotipato ed esclusivo -, un certo grado di sana aggressività. Il modello maschile a te proposto è stato tale da spingerti al rifiuto, piuttosto che all’identificazione con esso. Ti è stata esibita violenza, non forza, ed una rigidità che non sapeva riconoscere e incontrare sensazioni, emozioni, tenerezza. Questo sarebbe stato un problema per qualsiasi figlio maschio. Per un maschio che si riconosce gay, come nel tuo caso, le cose sono ancora più faticose, perché dal padre un figlio omosessuale si aspetta più amore ed accettazione, ed è sul padre che riversa la prima forma di innamoramento. E con la fisicità maschile un giovane gay ha ancora più bisogno di identificarsi. Infatti, se egli riesce ad accettare la sua diversità, ha necessità poi di sentirsi radicato, “a casa”, nel proprio corpo maschile, poiché si appresta a vivere una sessualità e un’affettività, che, non potendosi identificare con le finalità delle relazioni eterosessuali, innanzitutto procreative, trovano giustificazione, senso ed espressione solo in loro stesse. I partner omosessuali si cercano per un proprio diritto autonomo alla sessualità e all’affettività, che prescinde da altre giustificazioni. Per ritrovare il radicamento nel corpo e la sicurezza in te stesso, hai bisogno, a mio avviso, di lavorare nel tuo percorso terapeutico (e forse lo stai già facendo) sul rapporto spezzato con tuo padre.
Di certo frequentare un associazione omosessuale potrebbe esserti di aiuto, farlo consente in genere ai gay di rafforzare il senso di identità, contribuisce ad uscire dall’isolamento, permette di accedere a una cultura e a dei vissuti condivisi. In qualsiasi grande città trovi oggi una sede dell’Arcigay o altre associazioni finalizzate a rafforzare il senso comunitario di gay e lesbiche. Il clima si presuppone sia cordiale e amichevole: sono organizzati spesso gruppi di autocoscienza o di accoglienza per i nuovi arrivati, ma – attenzione – anche lì si potrebbe andare per rimorchiare! Non solo per rimorchiare, di certo, ma anche per quello. Come si può andare per rimorchiare all’opera, al supermercato, in spiaggia, in metropolitana… L’augurio che potrei farti è, nel caso in cui tu decidessi di lasciarti abbordare, di saper scegliere, e di incontrare un ragazzo, un uomo, capace di amarti e di accoglierti fosse anche per una sola volta, fosse anche per una sola notte.
Cari saluti
Giuseppe Iaculo

di Giuseppe Iaculo

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