Da Sodoma a Hollywood, vince l’arduo “Boven is het stil”

Premio Ottavio Mai alla scabra coproduzione tedesco-olandese diretta da Nanouk Leopold su un contadino taciturno che accudisce il padre malato. Il pubblico premia "Alata" e il corto "Holden".

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Scelta radicale: la giuria del 28esimo Torino GLBT Film Festival, conclusosi ieri sera con rilevante successo di pubblico al cinema Massimo, ha assegnato il Premio Ottavio Mai al film più arduo, ostico, scabro. Vince infatti la coproduzione tedesco-olandese Boven is het stil (“È tutto così tranquillo”) della regista di Rotterdam Nanouk Leopold, legnoso dramma rurale poco applaudito dal pubblico, fatto di lunghi silenzi e sguardi contemplativi, su un contadino taciturno, Helmer, che porta avanti una fattoria nella campagna olandese e accudisce il padre malato immobile in un letto. La motivazione parla di «onestà di arte cinematografica di vigorosa qualità, elevato livello recitativo degli interpreti, crudezza poetica, fotografia livida e carnale, capacità più unica che rara di trasformare il silenzio tragico nelle relazioni umane in grande forza comunicativa attraverso lo schermo».

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Sicuramente un indiscutibile punto di forza del film tratto dall’omonimo romanzo di Gerbrand Bakker è l’interpretazione granitica e controllata dell’imperturbabile protagonista, l’attore e cantante Jeroen Willems, scomparso a soli 50 anni nel dicembre scorso, poco dopo la fine delle riprese (magnifica la scena in cui il giovane fattore si infila nel suo letto, tenta un approccio, scoppia a piangere e viene abbracciato da Helmer). La scelta si pone anche nel solco di opporsi a una certa “omogeneizzazione” conformista di un cinema queer più convenzionale e televisivo, anche se, in quanto a rigore e qualità artistica, era migliore il polacco In The Name Of di Malgoska Szumowska. Una menzione speciale è andata alla scoppiettante rom-com con innesti surreali Will You Still Love Me Tomorrow di Arvin Chen. La giurata Vladimir Luxuria ha poi ironizzato: «I veri protagonisti dei film in concorso sono state docce e piscine. Caro Calderoli, noi ci laviamo!». Il pubblico ha invece preferito il thriller notturno Alata di Michael Mayer, il cui aitante attore Nicholas Jacob ha ritirato il premio sul palco.

Tra i doc hanno prevalso The Love Part of This di Lya Guerra (giuria) e Paul Bowles: The Cage Door Is Always Open di Daniel Young (pubblico) mentre il commovente Bunny diretto da Seth Poulin e Nickolaos Stagias su un anziano malato di Alzheimer accudito dal suo compagno e il franco-iberico Holden di Juan Arcones e Roque Madrid sono i migliori cortometraggi. Una giuria composta da studenti del Dams di Torino ha infine assegnato il Queer Award alla commedia sentimentale cilena Joven & Alocada di Marialy Rivas.

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Alla snella cerimonia di premiazione, introdotta da un toccante accenno a Bella Ciao di Vladimir Luxuria, il cantante pugliese Renzo Rubino ha suonato al pianoforte, tra gli altri, il nuovo, scatenato e accattivante singolo Pop che uscirà tra breve, spiegando poi com’è nata la canzone gay Il postino (Amami uomo) premiata a Sanremo: è ispirata alla storia vera di un suo caro amico che per amore di un uomo ha lasciato famiglia e lavoro sicuro. L’amato disegnatore tedesco Ralf König, autore del manifesto di quest’edizione, ha quindi espresso amore incondizionato per Torino: «Mi sono innamorato di questa città, ci sono librerie ovunque! E gli uomini italiani sono i più belli del mondo».

Per chiudere le cinedanze è stata scelta una dignitosa commedia adolescenziale, Geography Club di Gary Entin, su un gruppo di mutuo sostegno ad adolescenti lgbt “mascherato” da doposcuola dedicato al ripasso della geografia, a cui aderisce il bel Russell che vorrebbe gridare al mondo il suo amore ricambiato per il quarterback “closeted” Kevin. Bullismo, omofobia violenta, solidarietà amicale (peccato solo che le famiglie qui fossero troppo fuori campo): temi forti e ricorrenti in un’edizione inevitabilmente sottotono per i tagli imposti ma densa di stimoli e proposte interessanti, su tutti il partecipato focus dedicato al Medio Oriente ‘Mezzaluna Rosa’.

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Nell’ultima giornata di proiezioni si è visto un frizzante documentario dedicato all’immortale musa di John Waters, I’m Divine diretto da Jeffrey Schwarz, scandito da un buon ritmo e arricchito da selezionati interventi della madre Frances, delle amiche attrici Holly Woodlawn e Ricki Lake e dello stesso Waters. Scopriamo così gustosi particolari sulla funambolica vita artistica e privata dell’antesignana di tutte le drag, all’anagrafe Harris Glenn Milstead, scomparsa prematuramente nell’88 a soli 43 anni: la sua infatuazione per l’attore Tab Hunter con cui recitò in Polyester e di cui da piccolo Glenn era un grande fan; il suo essere spendaccione ma per generosità compulsiva, visto che ricopriva di regali i suoi amici; il ruolo fondamentale dell’amico truccatore e costumista Van Smith a cui si deve la creazione del fortunato look dirompente di Divine.

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C’è infine voluta una proiezione aggiuntiva per soddisfare l’afflusso di pubblico corso a vedere Out Loud di Samer Daboul, primo film queer libanese con serie difficoltà di distribuzione in patria ma molto scaricato online. Trattasi di un artigianale dramma molto dialogato in video Digital Betacam su un gruppo di sei amici che si ritrovano in una villetta fuori Beirut dove inscenano liberatori matrimoni collettivi e utopistici rituali amorosi mentre la violenza antigay del mondo esterno incombe minacciosa. Problematica la realizzazione, narrata in un making of presentato anch’esso al festival: minacce, insulti, danneggiamento dell’attrezzatura e postproduzione resasi necessaria all’estero, negli States. Puro cinema “resistente”, combattivo e coraggioso, come questo festival queer, il terzo più importante del mondo, che si deve difendere a spada tratta visto anche l’innegabile successo. Perché più di tutto importa proprio questo. La sopravvivenza.

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