Allenando la speranza insieme a Levante, l’intervista

La cantautrice ha parlato a Gay.it di cosa significa vivere in profondità. Tra un nuovo album, attivismo performativo, genitorialità, e la libertà di non essere una donna rassicurante.

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LEVANTE, OPERA FUTURA
LEVANTE, OPERA FUTURA
6 min. di lettura

Levante è ancora più libera di prima.

Poco importa se arriva ultima a Sanremo o se le persone si lamentano dei suoi capelli platino, lei non ha più voglia di compiacere nessuno.

Con il nuovo album Opera Futura, disponibile ovunque dallo scorso 17 Febbraio, conserva uno spirito ribelle che dice ancora: non mi avrete. Come quando nel 2014 debuttò sulla scena musicale con Manuale Distruzione e non sapeva ancora cosa sarebbe successo da lì in poi. C’era solo voglia di fare musica, com’è sempre stato da quando aveva tredici anni.

Opera Futura è un ritorno a quello state of mind e al contempo segna un capitolo tutto nuovo: tenendo in braccio a sé un cigno e avvolta nel verde speranza, guarda al futuro con grinta, vulnerabilità, e la saggezza di chi sa di non avere la verità in tasca, ma racconta quello che prova come un libro aperto.

 

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La speranza per Levante non è uno slogan motivazionale, ma un muscolo d’allenare quotidianamente, a partire da quei momenti tetri di cui non vogliamo mai parlare. Tantomeno sul palco più famoso d’Italia.

Invece la cantautrice è tornata a Sanremo con Vivo, brano che ripercorre il lato più fragile del post-parto (a due settimane dalla nascita della figlia Alma Futura lo scorso 13 Febbraio 2022) cantando un dolore che si fa inno universale, una danza incalzante che invita a rialzarci e sperare di farcela ancora una volta. Senza facile retorica ma urlando in faccia a quello che ci fa più male (e magari ballarci anche sopra).

È solo una delle tante sfumature di un percorso artistico multiforme – dalla musica al cinema (ha da poco scritto l’intera colonna sonora di Romantiche, esordio alla regia di Pilar Fogliati) alla letteratura (Se non ti vedo non esisti e Questa è l’ultima volta che ti dimentico sono anche il titolo dei suoi due romanzi) – che accoglie il pubblico in un grande abbraccio, senza mai piegarsi alle pressioni sociali.

Ne prende coscienza lei per prima, anche mentre parliamo e mi racconta il suo presente da mille angolazioni diverse.

In questi mesi hai parlato spesso in più occasioni di donne non rassicuranti. Cosa significa per te essere una donna non rassicurante? E perché credi che la società le teme ancora?

Significa essere libere. In quanto donne dobbiamo sempre dimostrare di stare al nostro posto, di non essere troppo invadenti, utili ma fino ad un certo punto. Non dobbiamo dare fastidio.

Io non sono mai stata rassicurante nelle cose che ho fatto. Inizialmente era un linguaggio che utilizzavo rispetto quello che mi accadeva attorno, e dicevo delle cose scomode, da Non me ne frega niente a Santa Rosalia a Pose Plastiche o  Alfonso.

Ma in questo momento della mia vita ho capito che non ero rassicurante nemmeno io e quello che stavo vivendo.

La maternità mi ha messo in una condizione in cui non riuscivo a riconoscermi nel mio corpo e nella mia mente. È vista come un momento di gioia, ma io non raccontavo la gioia, né prima né dopo: raccontavo che il mio corpo si trasformava, e rispetto a quello che si dice delle donne incinta che “sono stupende”, io non mi ritenevo nemmeno lontanamente bella.

Poi ho parlato anche del post parto, e tutti quei temi che non si raccontano oppure vengono banalizzati. Tipo su Instagram, no? Arrivano sulle bocche sbagliate e le tue battaglie vengono appiattite e poi accantonate, perché c’è sempre qualcos’altro di cui parlare.

Anche la scelta di farmi platino, di colorarmi come voglio io, non è stata facile. Il mio cambio di look ha fatto storcere il naso ma ho dovuto verbalizzare che si trattava anche di invidia verso questa libertà. Ho avuto il coraggio – dopo dieci anni con un’immagine molto chiara – di fare qualcosa che ha destabilizzato il fan. Poi il mio vero fan lo sa, magari mi preferiva mora, ma non gliene frega più di tanto. Ma quelli attorno sono stati veramente aggressivi. E quindi ti rendi conto che non essere rassicurante forse va di pari passo con la libertà.

In Mater c’è questa figura così grande e divina, di cui tutti parlano per “mare, terra, e cielo” ma di fatto è solo un essere umano che sta cercando di ritrovarsi. Ricolleghi anche questo alla tua esperienza con la maternità?

Ho iniziato a scrivere Mater prima che Alma nascesse. Quando sei grato di creare qualcosa dal tuo corpo, ti senti vicina alla cosa più alta che possa esistere. Era bellissimo, perché io mi sentivo vicina a Dio, al di là che uno ci creda o no. Però sei terrena, sei piena di paure, perché dopo il parto hai creato la tua creatura più grande. Hai messo al mondo la tua paura più grande. A quel punto sei piena di responsabilità e ti devi prendere cura di un altro essere fragile, che dipende da te e il tuo corpo.

Racconto di questa scissione, del contrasto tra questa gigantesca altezza e questa tremenda bassezza. Però ci sono anche delle risposte: “per mare, per terra, e per cielo tutti parlano di te. Tutti chiedono che tu sia grande, di fatto sei umana davvero. Una voce dentro grida: mater” perché sei solo una madre. Non sei un essere divino. Questo brano è per me una grande risposta a tutte le domande che mi sono fatta.

Come accennavi anche prima, in relazione a temi che vengono banalizzati, in Capitale mio capitale parli proprio di attivismo performativo. Un tranello in cui rischiamo di cadere un po’ tutti, quando vogliamo avere un’opinione su ogni argomento ma ci ritroviamo ad essere solo dei quaquaraqquà. 

Io sono una persona estremamente sensibile e mi sono spesso esposta. Ancora prima dei social sono una di quelle che davanti al tg piangeva, perché le sento tanto addosso le cose che capitano e mi turbano. Mi sono esposta raccontando o scrivendo canzoni su temi che oggi sono un trend ma prima non lo erano.

Però c’è un limite a tutto. Quando diventa il tuo lavoro esprimere opinioni su qualsiasi cosa, e magari seguendo i trend diventi un brand, a me dà molto fastidio.  Mi rendo conto di chi annoia su certi temi: perché se c’è uno che storce il naso davanti a determinati argomenti lo storcerà ancora di più se ci sono cento str*nzi che parlano di quell’argomento banalizzandolo. Significa appiattire temi importanti che mi stanno molto a cuore come l’omosessualità, il femminismo, e tante altre forme di attivismo.

Quindi bisognerebbe smettere? Non ho la risposta rispetto a come ci si dovrebbe comportare. Ma almeno passarsi una mano sulla coscienza e dire: io su questo non sono preparato, non mi sono fatto un’idea su questo argomento, e non ne parlo. L’onestà è la risposta migliore.

A proposito di onestà, in quest’album mi sembri molto più libera e vulnerabile, e ti metti tanto in discussione. Ho pensato che può averlo fatto solo una persona che va o è andata in terapia. 

Sì, sono andata in terapia e mi ha aiutato tanto. Non sul presente, ma sul passato perché ho grandi problemi con il mio passato.

Quando vai in terapia cambia la tua forma mentis, e inizi a ragionare in maniera più ampia. Anche se nel periodo di Opera Futura non l’ho fatta, c’è comunque lo zampino di un percorso di riflessione e di ampliamento sul mio raggio d’azione di pensiero. L’esperienza della genitorialità – un termine che preferisco rispetto a maternità – da un lato mi ha buttato molto giù, ma mi ha anche tanto alleggerita. Ad esempio, non voglio più conquistare nessuno. Prima avevo sempre il desiderio di piacere, ma ora non mi interessa. Se non ti piaccio, pazienza.

Questo me l’ha dato Alma, me l’ha insegnato un essere che ha appena compiuto un anno. Senza saperlo mi ha detto che la vita è fatta in un altro modo e ho ristabilito le mie priorità.  Io adesso mi sento un canale di vita per lei, e un canale libero per gli altri.

In Vivo canti di un sogno erotico e della gioia del tuo corpo come atto magico.

L’ho scritta due settimane dopo il parto, ma non c’era nessuna gioia. L’unica gioia che avevo era quella di aver messo al mondo Alma, ma ero piena di contrasti ormonali e pesantezza. La canzone era una preghiera, un desiderio, un elenco di intenti. Io volevo tornare a vivere in quel modo lì. La gioia del mio corpo è un atto magico perché sarà una magia quando mi riprenderò questo corpo, e in quel momento mi sembrava impossibile. Per questo ha avuto senso cantarla a Sanremo un anno dopo: a quel punto ero scesa come un’eroina che si era ripresa sé stessa.

C’è anche una liberazione sessuale?

C’è anche la sessualità, ma il sogno erotico era un desiderio che non si poteva dire. Un erotismo non solo sessuale, ma come modus vivendi. È vivere in profondità, nell’eccesso, nel tratto più istintivo e carnale. Nella fisicità di tutto.

È un album verde speranza, e in questo periodo storico – tra la nostra classe politica e la regressione di certi diritti – sembra quasi urgente. Come alleni tu la speranza?

Faccio fatica come in tutte le palestre. Cerco di circondarmi di menti e affetti che mi fanno bene. Cerco di proteggermi in questo modo. Poi la pratico provando a comportarmi nel migliore dei modi possibili, anche nell’atto di bellezza: il gusto è gusto, ed è assolutamente soggettivo, ma mi approccio al mondo augurandomi di fare delle cose belle. Sono presuntuosa nel dirti che con Opera Futura sento di aver fatto una cosa molto bella. La speranza non è solo stare ad aspettare con un pensiero positivo, è attuare la speranza. Per me è quell’allenamento: fare in modo che i tuoi desideri diventino una cosa reale. Per farlo ti devi comportare nel modo in cui serve.

Leggi anche: Sanremo 2023, nel futuro con Levante, le cantautrici non sono un miraggio

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