Almodóvar presenta a Cannes la sua fragile Julieta travolta dai sensi di colpa

Applausi moderati per il discreto ‘drama seco’ del maestro spagnolo, uno dei più sobri e intimisti

pedro_almodovar_2016
3 min. di lettura

Al suo ventesimo film Pedro Almodóvar si scopre più sobrio e intimista del solito. Dopo gli eccessi trash del brutto Gli amanti passeggeri, il maestro spagnolo torna col discreto Julieta, torturata tragedia al femminile, più che melò, sul senso di colpa, intrisa di dolore e morte, accolta con un applauso a dir il vero non troppo convinto in proiezione stampa. Tratto da tre racconti del Premio Nobel canadese Alice Munro contenuti nella raccolta In fuga (Einaudi), racconta con una lunga lettera, attraverso articolati flashback, la vita travagliata di Julieta, che si racconta alla figlia Antia persa di vista da tredici anni.

Julieta - Montée

Lei non si rassegna della perdita, ha scoperto dall’incontro casuale con un’amica d’infanzia che Antia ha tre figli e vive non lontano da Madrid, da cui Julieta stava per partire col suo nuovo compagno con destinazione il Portogallo. Ripercorriamo così la sua giovinezza negli anni ’80 a partire dall’incontro casuale su un treno col pescatore Xoan che sarà il grande amore della sua vita e da cui avrà proprio Antia (è la scena più bella del film, con l’abbacinante apparizione di un alce).

Julieta 4

Ma il senso di colpa perseguiterà Julieta e la sua fragilità la porterà a sentirsi responsabile per i fatti tragici che si succederanno senza sosta (“ti ho trasmesso il mio senso di colpevolezza come un virus”, scrive alla figlia). Sulla carta c’era materiale incendiario per l’immaginario almodovariano: passioni incandescenti, sentimenti esacerbati, traumi esistenziali; eppure, visivamente, non basta la classica dominante rossa e il risultato è un po’ esangue, nonostante le aderenti interpretazioni delle protagoniste – Julieta è interpretata da due attrici diverse, a seconda dell’età, Adriana Ugarte ed Emma Suarez. L’idea di eliminare ogni barocchismo ma anche quell’ironia tipicamente almodovariana crea un certo distacco: se il grande Pedro Almodóvar resta uno dei massimi cantori dell’universo femminile, qui sembra venire un po’ meno quel senso di solidarietà collettiva che rendeva umanissimo il gineceo dei suoi capolavori come Parla con lei o Tutto su mia madre. C’è anche un accenno lesbico, quando l’amica d’infanzia di Antia rivela a Julieta che il loro rapporto, poi rinnegato da quest’ultima, trascendeva la semplice amicizia.

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“A Cannes preferisco essere in concorso, è più interessante per me e per i media – ha dichiarato il regista all’affollata conferenza stampa – Non ho il talento di Woody Allen o Steven Spielberg: rispetto la loro scelta di non essere in competizione. Mi piace esagerare coi colori, sono cresciuto con la Pop Art. Ho cercato di adattare i racconti della Munro che ammiro molto, vedere dove mi portavano i personaggi. Pensavo di girare in Canada e poi a New York ma la famiglia in Spagna è un po’ diversa. Lo scandalo dei Panama Papers? Il mio nome e quello di mio fratello (Agustin, produttore, n.d.r.) sono i meno importanti ma la stampa spagnola ci ha trattato come se fossimo i più rilevanti. Riguardo alle musiche, lavoro da vent’anni con Alberto Iglesias, è un eccellente professionista”.

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“Questo film non è almodrama – continua Pedro Almodóvarma un ‘drama seco’, un dramma molto sobrio. Non ho mai scritto nulla di autobiografico né ho permesso che qualcuno scrivesse una biografia su di me. Non mi sento vecchio, ma vedo che sto invecchiando. E sono d’accordo con Philip Roth quando dice che ‘l’età non è una malattia, piuttosto è un massacro’.

Gli anni ’80 mi mancano ma non sono una persona nostalgica. Julieta in quegli anni è una donna molto libera. In questo film la fatalità è determinante, si tratta di donne punite dalla vita”.

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