Il Festival di Cannes 2015 parte a testa (abbastanza) alta, con un film impegnato, d’autore, correttamente etico/didattico, medio. Si chiama appunto La testa alta, ed è diretto da una regista/attrice parigina emergente, Emmanuelle Bercot, che vedremo anche in concorso nel sentimentale Mon roi di Maiwenn ma davanti alla macchina da presa.
Solitamente il titolo d’apertura sulla Croisette è spettacolare, altamente glamour, zeppo di star e, mediamente, piuttosto brutto (vedi l’anno scorso Grace di Monaco). Forse per segnalare una sorta di discontinuità con la precedente presidenza del grandissimo Gilles Jacob, per il primo anno di Pierre Lescure, ex dirigente di Canal Plus, è stata scelta a sorpresa una piccola produzione la cui unica vera star è la monumentale Catherine Deneuve che appare in conferenza stampa con un’accoglienza a dire il vero non particolarmente calorosa. Lei è sempre divina ma un po’ annoiata, spara a zero sui social network “responsabili del fatto che non ci sono più le star, è un sistema che impedisce di sognare le leggende. Peccato, non fa più sognare neanche me. Si sa tutto di tutti, non c’è più privacy, ma per una star ci vuole del mistero”.
Nell’equilibrato La testa alta interpreta un giudice che si occupa di minori disadattati e segue dodici anni, dai sei ai diciotto (come in Boyhood, ma le riprese non hanno seguito il tempo reale di crescita del protagonista), di un ragazzino caratteriale, ipercinetico e violento, Malony (la piccola rivelazione Rod Paradot) che viene tolto alla madre problematica (Sara Forestier) per un lungo percorso di riabilitazione sociale che passa dal carcere minorile a una comunità di recupero. Nel cast spicca un invecchiato Benoît Magimel nel ruolo di un educatore oppresso da stress e frustrazione. “Ho assistito a diverse udienze al Tribunale di Parigi, era indispensabile e mi ha molto aiutato – ha dichiarato la Deneuve -. È un lavoro molto duro che si può fare solo se si ha una vocazione. Spesso gli adolescenti in questione sono molto selvaggi e chiusi in se stessi. Ho adorato la sceneggiatura e tutti i personaggi”. “Non ci sono molte somiglianze fra me e Malony – aggiunge Rod Paradot – ed ero molto felice quando sono stato scelto. Non avevo mai pensato di fare l’attore, sarebbe un grande piacere continuare a fare questo lavoro. Ma devo tenere la testa ‘fredda’ più che ‘alta’ “.
La testa alta sembra una specie di Mommy ma senza grandi guizzi creativi, incentrata sull’approccio terapeutico/giudiziario più che sul rapporto madre/figlio, con lunghe scene in tribunale e nello studio del giudice che ricordano il cinema rigorosamente etico dei Dardenne. La regista sembra interessata a dimostrare quanto sia difficile cercare di ‘rieducare’ casi complessi come quello di Malony ed evita la tipica progressione narrativa crimine/conflitto/riabilitazione sociale anche se nel finale c’è una nota di speranza ‘sospesa’ che proietta nel futuro.
Mommy, dicevamo. Proprio il suo talentuso regista, il ventiseienne canadese Xavier Dolan, si è presentato alla conferenza stampa dei giurati capeggiati dai fratelli Coen, insieme a una radiosa Rossy DePalma con grosso fiore tra i capelli e un fascinoso Jake Gyllenhaal dalla barba lunga. “Per me è un’esperienza nuova, disgiunta dalle precedenti – ha detto Dolan – La mia responsabilità non è giudicare i film, categorizzarli, ma trovare quelli che mi toccano, siano commerciali oppure no. Non ho una grande cultura cinematografica, per esempio Ingrid Bergman la conosco solo superficialmente”.
E dire che Dolan non ama in particolare un premio, ed è proprio un riconoscimento ufficiale di Cannes: la Queer Palm. Incredibile a dirsi, eppure fra Dolan e la comunità gay francese è frattura pressoché totale dopo un’intervista al settimanale Télérama nello scorso settembre in cui dichiarò che la Queer Palm è un “premio disgustoso” come tutti i riconoscimenti lgbt e i festival a tematica, secondo lui “ghettizzanti”. Gli esponenti queer transalpini sono rimasti di stucco, accusandolo giustamente di “sputare nel piatto” di quella fetta di pubblico gay che ha contribuito al suo successo, tanto più che i suoi film – quasi tutti a tematica queer! – sono stati lanciati proprio dalle cinerassegne lgbt e lui stesso ha vinto una Queer Palm con Lawrence Anyways (ma non è andato a ritirarla).
Adesso nessuno vuole più rinvangare questa polemica: Dolan concede interviste col contagocce parlando di “dibattito cretino” e l’organizzatore della Queer Palm, Franck Finance-Madureira, ci dichiara che “non parla più di questo argomento”.
Dopo Dolce&Gabbana e Armani, sembra ormai una triste moda tra gay celebri e viziati sparare ad alzo zero contro la causa lgbt. Ma non bisogna restare a testa bassa. Boycott Dolan?
di Roberto Schinardi – da Cannes
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