Un curioso fuori programma ha movimentato il photocall di un nobile – e serissimo – dramma in concorso, “Des hommes et des dieux” (“Uomini e dei”) del francese Xavier Beauvois, il più giovane regista in concorso grazie ai suoi 43 anni. L’attore Lambert Wilson, che ricordiamo gay in “Baby Love” e qui interpreta il priore Christian di un’isolata comunità di monaci trappisti, ha appassionatamente baciato sulla bocca il regista Xavier Beauvois divertendo i fotografi. Per par condicio bisex, Wilson ha riservato lo stesso trattamento alla collega Sabrina Ouazani, a cui ha anche inferto una voluttuosa pacca sul sedere: lei è rimasta stupefatta ma ha sembrato gradire.
E dire che nel film non c’è assolutamente spazio per le goliardate, anzi: tratto da una storia vera, “Des hommes et des dieux” racconta con encomiabile rigore, senza tempi morti, degli otto monaci che negli anni ’90 vivevano nel monastero di Tibéhirine sulle montagne dell’Atlante coltivando i campi e producendo miele. Finirono massacrati il 21 maggio del 1996, durante la guerra d’Algeria, da un presunto Gruppo Islamista Armato (se ne salvarono due, e uno di loro è ancora vivente).
Si trovarono le teste mozze ma non i corpi. Un generale francese attribuì poi la responsabilità dell’eccidio all’esercito algerino che da un elicottero li aveva scambiati per soldati. Il regista ha dichiarato in conferenza stampa che opta per questa seconda ipotesi mentre il suo film non chiarisce il mistero.
Fino all’ultimo i religiosi furono dilaniati dal dubbio morale di abbandonare l’eremo e fuggire altrove o proteggere il villaggio rurale situato nelle vicinanze. Dei monaci si accentuano la profonda umanità e debolezza – a un certo punto uno di loro, disperato, manda un altro monaco ‘a farsi fottere’ – infondendo uno spessore molto ‘terreno’ ai personaggi per evitare ogni ieraticità ipnotica (al contrario di “In memoria di me” e “Il grande silenzio”). Questo è uno dei punti di forza del film riuscito, al pari dell’interpretazione di Michael Lonsdale, davvero da Palma d’Oro, acciaccato e saggio medico che arriva a fare 150 visite al giorno nei giorni caldi della guerra. Nella lettera testamento del priore, che si chiude col doppio saluto ‘amen’ e ‘inshallah’, si legge una frase di Blaise Pascal: “Gli uomini non fanno mai tanto male come quando lo fanno per ragioni religiose”. “Sono contro i dogmi ma rispetto ogni religione” ha spiegato Lambert Wilson. “Ho molti amici musulmani, mi colpisce la ricchezza della loro fede”.
Tra le opere presentate dall’ACID (Association du Cinéma Indépendant pour sa Diffusion), segnaliamo il documentario paraguayano “Cuchillo de Palo – 108” di Renate Costa sull’arresto e la tortura a morte dello zio gay Rodolfo Héctor Costa Torres durante la dittatura di Alfredo Stroessner che oppresse il Paraguay per ben 35 anni, dal ’54 all’89, trasformando il “Colorado Party” da partito social-democratico in falange armata di estrema destra, responsabile di torture, rapimenti e corruzione (3000-4000 omicidi e circa 500 sparizioni).
Il nome di Rodolfo Héctor Costa Torres finì nella cosiddetta ‘Lista 108’, un elenco di proscrizione che comprendeva 108 omosessuali, considerati malati e criminali dal regime. Ancora oggi ‘108’ è in Paraguay sinonimo di ‘frocio’ e non esistono nella capitale Asunción stanze d’hotel col numero 108 né targhe automobilistiche che terminano con queste tre cifre.
“Cuchillo de Palo – 108 nasce dalla necessità di far fronte alla rabbia e al dolore che emerge dal vedere l’ignoranza della gente di fronte all’evidenza” ha argomentato la regista. “Nel laboratorio di fabbro, mio zio Rodolfo era, durante la dittatura, un ‘cuchillo de palo’, ossia ‘un inutile coltello’. Tutti coloro che insegnavano o si comportavano diversamente erano soggetti alla repressione. Una vita condannata al silenzio, persino in famiglia. “Cuchillo de Palo – 108” è un intenso processo interiore alla ricerca di accettazione e riconciliazione: l’accettazione di Rodolfo, di suo padre, della società e della storia, per riconciliarli col nostro passato. Di fronte alla videocamera, la gente cerca di far emergere i ricordi confusi dell’infanzia. Un tentativo di ricostruire l’immagine dei perseguitati, i nascosti, gli ‘anormali’, nelle parole della gente che parla o evita di parlare, e facendo ciò, catturare l’immagine della società che è ancora imprigionata nell’intolleranza, nel silenzio e nella passività.
Quando chiesi alla polizia di che cosa era morto mio zio mi dissero: ‘Di tristezza’. Quella risposta contraddiceva tutti i miei ricordi della sua vita. Rodolfo era l’unico tra i fratelli di mio padre che non voleva fare il fabbro come mio nonno. Nel Paraguay degli anni ’80, sotto la dittatura di Stroessner, voleva fare il ballerino”.
di Roberto Schinardi – da Cannes
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