«Mi sono innamorato di un ragazzo» spiega lo zio Frank, a tavola, quando la curiosa Olive, settenne occhialuta, vuole capire perché ha tentato di suicidarsi. «Di un ragazzo? Che matto!» replica la piccola divertita. «Il termine giusto è un altro» sbotta il nonno omofobo. È uno degli scambi di battute di uno dei film più spassosi in circolazione, Little Miss Sunshine di Jonathan Dayton e Valerie Faris.
Davvero una bella sorpresa questa commedia indipendente americana, un road movie agrodolce e affettuosamente disincantato su una famiglia davvero sui generis che attraversa New Mexico e California a bordo di uno scassatissimo pulmino giallo Volkswagen per portare la piccola Olive a un terrificante concorso di bellezza con odiose e minuscole pupattole truccate come improbabili micro-Barbie da far esibire a comando per la gioia di un pubblico composto da agguerriti genitori pronti a tutto pur di vedere su un qualsiasi palco le proprie impavide figliolette.
Uno dei personaggi più belli è proprio quello dello zio Frank, omosessuale colto e sensibile, massimo esperto americano di Combray e Guermantes (leggasi: Proust) in down psicologico dopo un tentativo di suicidio per la sua irraggiungibile Swann, ossia un ragazzetto grazioso e arrivista che l’ha mollato per una sorta di attempato barone di Charlus materializzatosi nella forma di un altro studioso di Proust più scaltro e ambizioso di lui. Oltre a rubargli il fidanzato, il diabolico rivale gli ha pure fregato la cattedra e un premio per un lavoro letterario sull’insuperato maestro francese. Ma a differenza di tanti film americani, il gay non si piange addosso né fa la primadonna isterica, è molto maschile e vive il suo disagio con contegno: attraverso pochi tratti azzeccati, i registi ce lo ritraggono spaesato ma mai giudicante (e fa subito comunella con l’altro depresso della famiglia, l’introverso Dwayne che vuole fare il pilota aeronautico e da mesi non parla “perché odia tutti”).
L’interpretazione molto equilibrata di Steve Carell – che riscatta una carriera certo non ai vertici
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L’interpretazione molto equilibrata di Steve Carell – che riscatta una carriera certo non ai vertici, punteggiata da ruoli non memorabili in filmetti quali 40 anni vergine e Vita da strega – è costruita abilmente su sguardi molto più esplicativi di mille parole e su alcune sagaci perle di saggezza – splendido il confortante discorso sul molo riguardo all’importanza della sofferenza. In generale, comunque, è l’intero cast che è oliato a meraviglia: Greg Kinnear, il gay candidato all’Oscar di
Qualcosa è cambiato, è qui il credibile papà etero che tiene corsi poco seguiti in cui insegna in nove passi ad avere successo nella vita ma lui stesso si infogna in un progetto editoriale che lo porta al fallimento; Toni Collette (Velvet Goldmine) è amorevole e deliziosa nel ruolo della mamma che non sa cucinare e cerca di ricucire gli strappi nella bislacca famigliola; Alan Arkin è semplicemente strepitoso come nonno eroinomane appassionato di riviste porno (la scena col poliziotto che ferma il furgoncino è da sbellicamento); la piccola Abigail Breslin si fa amare per la sua dolcezza ingenua senza necessariamente rubare la scena in ogni inquadratura; il tenero Paul Dano – era il protagonista Howie nel bel film gay L.I.E. – è un adolescente ribelle e cocciuto ma senza maledettismi di maniera.
La critica mai ovvia all’ossessiva smania di competizione tipica della cultura americana e al culto della magrezza a tutti i costi propagandata dai media ne fanno un film intelligente per nulla melenso o compiaciuto, con un tocco di rassegnata malinconia, dal ritmo incalzante e con una sceneggiatura limpida che non si perde in finalini consolatori, pistolotti morali o siparietti inutili. E poi, finalmente, un film che fa davvero ridere.
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