“Fuori i Nomi!”, Simone Alliva celebra 50 anni di storia LGBT d’Italia – la nostra intervista

Da oggi in libreria con Fandango, "Fuori i Nomi!" rintraccia e mette in luce le radici storiche del Movimento LGBT italiano, attraverso le parole di chi quelle battaglie le ha combattute in prima persona.

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A quasi un anno dall’uscita di Caccia all’Omo, Simone Alliva torna oggi in libreria con Fuori i Nomi – Intervista con la Storia LGBT Italiana, edito da Fandango. A 50 anni dalla nascita di FUORI!, primo Movimento di liberazione omosessuale italiano venuto alla luce nel 1971, Simone ha realizzato una raccolta unica di parole e storie di chi ha resistito alla violenza della destra religiosa, alla piaga mortale dell’Aids che ha spazzato via un’intera generazione, all’omotransfobia, politica e sociale, che ancora oggi frena la piena uguaglianza di diritti e la piena accettazione.

Alliva, oggi giornalista per L’Espresso, Esquire Italia e La Stampa, ha rintracciato e messo in luce le radici storiche di un Movimento di liberazione e di conquista di diritti, attraverso le parole di chi quelle battaglie le ha combattute in prima persona, vincendo, perdendo, ma non smettendo mai di pensare di essere nel giusto.

“Questo libro non è un volume di storia. Non intende raccontare la nascita del Movimento, non ha nessuna pretesa di appuntare al petto degli intervistati e delle intervistate medaglie di merito o dare patenti di ogni tipo. Intende solo celebrare questi cinquant’anni. Questo è un libro di vite. Di incontri, scontri, coincidenze.”

Come accaduto con Caccia all’Omo lo scorso giugno, abbiamo intervistato Simone.

A poco meno di un anno da Caccia all’Omo, torni in libreria con questo Fuori i Nomi – Intervista con la storia italiana LGBT. Partiamo dal principio. Com’è nata e come si è sviluppata l’idea di questo tuo nuovo libro.

Ho sempre amato la storia e considero l’intervista giornalistica un genere preciso. Le interviste non sbagliano mai, sono sempre fonte di notizie e sono sempre un torrente di rivelazioni. Nell’ultimo anno ho assistito a un dibattito totalmente sconnesso sul ddl Zan e sulle questioni lgbt, sradicato dalla storia del movimento e dalle voci che la rappresentano. Riportare al centro le persone che hanno fatto la storia italiana (non solo lgbt ma italiana) mi sembrava la cosa più importante da recuperare sulla scena del vero. Questo è un libro nato “per caso” ed è il frutto di diverse esigenze: quella di mettere le cose al proprio posto. Quella di ricordare 50 anni di movimento Lgbt. E infine quella di ringraziare una comunità che in questi anni mi ha dato sostegno e fiducia.

Perché e quanto è importante conoscere la storia del movimento LGBT, ai più purtroppo sconosciuta. Quanto pesa la memoria storica, proiettata non solo sull’oggi ma anche, se non soprattutto, sul domani.

Quando lavoro cerco sempre di occuparmi di quello che non c’è o non viene visto. La storia del movimento Lgbt italiano è connessa con quella di questo paese ma è stata censurata per troppo tempo dai media generalisti. Sì, ci sono libri, articoli, documentari ma sono sempre di settore, di nicchia. Era importante per me offrire un lavoro giornalistico preciso su un tempo che ha cambiato la nostra società. E di raccontarlo con la giusta distanza che è quella di cinquant’anni. Capirli questi anni, anche con domande non convenzionali, per offrire a chi pensa di non avere niente a che fare con questa storia, una porzione di verità. Capire dove è arrivato il movimento o dove si è fermato. Ma non solo. L’intenzione è dare a chi verrà dopo degli strumenti. Queste sono vite che non raccontano soltanto un periodo molto violento e buio, ma che spiegano come si fa nominare ciò che sembra innominabile dentro di noi. Come si può entrare nel buio e illuminarlo.

In 283 pagine intervisti pezzi di storia del movimento LGBT nazionale. Angelo Pezzana, Enzo Cucco, Giovanni Minerba, Felix Cossolo, Massimo Milani e Biagio “Gino” Campanella, Beppe Ramina, Graziella Bertozzo, Franco Grillini, Titti De Simone, Porpora Marcasciano, Deborah Di Cave, Vladimir Luxuria, Imma Battaglia, Giuseppina La Delfa e Bianca Pomeranzi. Come hai scelto chi intervistare, chi ‘raccontare’.

Los desencuetros, direbbe lo scrittore argentino Julio Cortázar. Ci sono parole intraducibili in spagnolo: nos desecontramos, abbiamo proprio quel giorno, in quel posto, in quel momento mancato il nostro incontro. Questo libro nasce soprattutto dall’assenza. Quasi tutte queste persone hanno incrociato la mia traiettoria di vita professionale degli ultimi anni e tutte le volte che ci parlavo pensavo: però quanta vita e quante storie. Non aveva alcun senso fare una raccolta di attiviste e attivisti storici e forse non era neanche possibile. Però aveva senso mettersi in ascolto di queste persone. Dentro queste interviste c’è tutto: l’essenza della vita, della resistenza, dell’ostinazione, della caparbietà e il senso delle cose, cioè perché facciamo quello che facciamo. Il senso, quello che, credo, abbiamo perso dentro questo tempo.

C’è un nome che avresti voluto includere tra le tue interviste, senza esserci riuscito? E tra quelli intervistati, ce n’è uno che ti ha particolarmente emozionato?

Molti. Forse tra tutti Giovanni Forti, il giornalista de L’Espresso morto nel 1992 di Aids. Quel momento storico che in qualche modo cerco di ricostruire con una domanda precisa che pongo a tutti è stato totalmente rimosso dalla storia di questo paese. E Forti è stato un protagonista molto ingombrante, interessante e tragico. In altri paesi si riesce a riflettere e raccontare quel periodo, pensiamo a “It’s A Sin” la serie tv di Russell T Davies, girata nell’Inghilterra colpita dall’Aids. Perché da noi è ancora così difficile? Spero che questo libro possa ispirare qualcosa di simile. Naturalmente ho chiesto interviste ad altre persone che hanno gentilmente o brutalmente declinato. Per quanto riguarda la seconda domanda: non posso dire chi mi ha emozionato di più perché farei un torto a tutti gli altri. Poi, chi leggerà il libro lo capirà da sé. Ma tutti quanti sono dei sopravvissuti e quindi tutti quanti sono allo stesso tempo persone tragiche e forti, capaci di emozionare anche solo con una risposta. Nel Novecento quando si parlava di “sopravvissuti” si intendeva semplicemente: essere sopravvissuti a una tragedia. La parola stessa evocava un lutto: si sopravvive a un disastro aereo, a un terremoto, ai campi di sterminio. Il sopravvissuto è qualcuno che è reduce da una sconfitta della storia. Spesso ne porta lo stigma o la colpa, pensiamo a Primo Levi: la colpa di sopravvivere quando gli altri muoiono. Invece nella cultura Lgbt sopravvivere è una vittoria. Sono sopravvissuti all’odio della società, alla destra religiosa, alla piaga mortale dell’AIDS. Non si sono fermati. Hanno preso questo paese e hanno cercato di portarlo lontano. Dentro questa forza c’è qualcosa che mi emoziona sempre.

Tra i tanti pezzi di storia, a mancare è Arcilesbica. L’Arcilesbica di oggi, quella applaudita da Salvini e Meloni. Sul finire spieghi i perché di questa assenza. Molto semplicemente, hanno declinato l’invito. Ti ha stupito? E soprattutto, come credi si possa uscire da questa distanza ormai diventata siderale tra Arcilesbica nazionale e il resto del movimento.

Arcilesbica c’è. È presente in ogni intervista. Avevo intenzione di intervistare la presidente attuale di Arcilesbica, volevo davvero mettermi in ascolto. Da quando faccio questo mestiere ho intervistato sempre chiunque. Mai negata un’intervista. Ho intervistato militanti di CasaPound e fondamentalisti cattolici. Mi è sempre stata riconosciuta l’onestà del punto di vista. Non ho mai deformato una parola. E non mi presento mai con il tesserino in mano dicendo: sono la stampa. Mi presento come una persona che vuole capire un’altra persona. E questo era lo scopo: ascoltare e capire. Avevo già sentito altre volte al telefono la presidente e mi sembrata una persona sempre molto ragionevole, intelligente. Il suo rifiuto mi ha stupito, sì. Però nel libro è presente la fondatrice di Arcilesbica, Titti De Simone: “Sono tornate alla casa del padre. Mentre noi avevamo fondato la casa della madre” mi ha detto. Direi che è abbastanza precisa.

Leggendo tutto d’un fiato Fuori i Nomi, mi sono reso conto come colonne della nostra storia LGBT abbiano idee divergenti sul concetto di “comunità” LGBT e “movimento” LGBT. Chi si chiede cosa siano, chi ne prende le distanze, chi invece li difende. Tu da che parte stai.

È vero molte risposte mi hanno sorpreso. E danno molto da pensare. Mi trovo d’accordo sul fatto che se questo è un Movimento, si muove poco. Se questa è una comunità, ha uno strano modo di fare comunità. Le risposte che mi sono state date mettono tutto questo in discussione. E forse è un bene, dopo 50 anni fermarsi e cercare di capire questi concetti. E magari non fermarsi ai concetti. Bianca Pomeranzi che ha fatto la storia del lesbofemminismo separatista dice una cosa molta precisa durante l’intervista: “Bisogna rimettersi in relazione con le proprie soggettività e con le pratiche. Basta che ognuno capisca che non è la definizione del sé che ti fa muovere ma il desiderio. Il desiderio è stato rimosso”. Forse il bandolo è proprio questo: il desiderio.

Ad unire le 16 storie di militanza LGBT due punti fermi, due eventi spartiacque e assai distanti tra loro. L’avvento dell’AIDS e il World Pride del 2000. In entrambi i casi, c’è un prima e c’è un dopo.

L’Aids ha spazzato una generazione di artisti, militanti, intellettuali. Ha rotto gli argini e stravolto le regole. E ridefinito anche il concetto stesso di relazione, sessualità e affettività. Moltissimi intervistati non riuscivano a raccontare quel tempo senza commuoversi o chiudersi in silenzi lunghi. Un mutismo doloroso che ho forzato, consapevole di affondare dentro ferite mai rimarginate. Ho fatto su molti una violenza psicologica e ne sono consapevole. Ma bisognava raccontare quel tempo. Molti hanno visto quanto può essere brutale una società che ti rifiuta e ti lascia morire senza una cura. Hanno visto morire i propri amanti e i propri amici. È stato il momento più alto e difficile della comunità che doveva fare da sé, accudirsi da sola. Ci sono storie che sembrano scritte per piangere. Ragazzi che si suicidano dopo aver passato l’ultima domenica con il proprio compagno, altri che si consumano da soli nel proprio letto e muoiono di diarrea e paura. Viene da chiedersi: una comunità così colpita dove ha trovato la forza di rialzarsi? Poi è arrivato il World Pride, ha segnato il passaggio in un luogo diverso, ha dato la luce a un tempo nuovo fatto di rinascita ma anche di orgoglio e consapevolezza. Non dimentichiamoci dello scontro con il Vaticano che Imma Battaglia racconta molto bene. Come sempre nella storia di questi 50 anni la comunità ha sfidato prediche e inferni, ed è uscita allo scoperto ricucendo anche i rapporti squarciati con la società. C’è qualcosa di mitico in tutto questo.

Chiudendo sull’attualità, da mesi in Parlamento si battaglia sul DDL Zan. Tu hai seguito l’intero iter, hai scritto un libro (Caccia all’Omo) tutto centrato sull’omotransfobia in Italia. A sensazione, credi che il DDL Zan riuscirà ad essere approvato o alla fine cadrà, tra Commissione guidata da un leghista e aula del Senato con numeri risicatissimi?

Da cronista politico posso dirti che si spara solo per morire bene. I numeri al Senato non sono rassicuranti, l’informazione sul ddl è totalmente piegata ad analisi che nulla hanno a che fare con i contenuti. Le persone che ne parlano non rappresentano quasi mai i soggetti protagonisti di questa legge, cioè le persone Lgbt. A rischio è sempre quella parolina “identità di genere”. Stralciata quella questa legge non avrà alcun senso, tornerà alla Camera e morirà. Draghi non ha speso una parola su questo ddl. Non lo farà. Quindi oggi tutto resta nelle mani dell’opinione pubblica, come spesso accade quando si parla di temi ritenuti sensibili. Servirebbe una vera e propria presa delle piazze, una serie di iniziative mirate e di successo per difendere questo disegno di legge. Forse così, si riuscirà ad arrivare da qualche parte. Come pronostico, lo so, vale poco. Ma i pronostici non rientrano nel mestiere.

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