L’ISIS non si ferma. Abbiamo più volte mostrato immagini cruenti : uomini più o meno giovani buttati giù dai tetti di un edificio alto, o lapidati, o uccisi di fronte alla folla festante: Medioevo puro, insomma. Ma leggiamo questa incredibile storia, raccontata da Bassem Mroue, un giornalista della prestigiosa agenzia stampa internazionale Associated Press.
L’ISIS riserva agli omosessuali i più brutali metodi di uccisione. La gravità sta nel fatto che la sentenza viene emessa anche quando non è possibile in alcun modo confermare l’orientamento sessuale della vittima. Gli omosessuali in Siria vivono nel terrore che qualcuno, amico, conoscente o familiare possa “venderli” e denunciarli all’ISIS per ingraziarsi i militanti o ancora peggio per mero odio. Inoltre la morte non avviene immediatamente: i denunciati vengono crudelmente torturati perché rivelino i nomi dei loro amici, mentre vengono setacciati computer e cellulari in un clima di caccia e di persecuzione più che medioevale.
Un ragazzo di ventisei anni, siriano, fuggito da due anni in Turchia, si sveglia ancora la notte, scosso da incubi dove si vede lanciato nel vuoto da un edificio o da un dirupo. L’uomo si è lasciato intervistare a condizione di essere identificato come Daniel Halaby. Halaby racconta che un suo amico d’infanzia nel 2013 si era unito al’ISIS e subito lo aveva tradito ai militanti, costringendolo ad abbandonare la sua città natale, Aleppo, la città più grande della Siria. “Sapeva tutto di me, che ero laico ed ero gay” afferma Halaby, sicuro che sarebbe stato denunciato. Nel settembre 2013 , i combattenti assediarono il quartiere di Aleppo dove Halaby viveva con la sua famiglia, cercando di strapparla dalla ribelle Free Syrian Army. Le due parti hanno negoziato la fine dell’assedio e durante gli accordi l’ISIS ha dato ai ribelli una lista di persone sospette che dovevano assolutamente essere consegnate. Halaby così scoprì terrorizzato che anche il suo nome era nella lista. A quel punto, costretto dagli eventi, si decise a fuggire in Turchia. Racconta che ad Aleppo la vita per i gay è sempre stata clandestina ma negli anni la situazione è peggiorata sempre di più.
Ora Halaby vive in Turchia e ha la bandiera dell’opposizione siriana e una bandiera arcobaleno attaccata ai muri della sua stanza. La sua famiglia non vuole parlargli e non ne vuole sapere più nulla di lui. Ogni tanto guarda i video dei ragazzi che vengono uccisi e soffre sentendosi impotente. Continua però la sua vita con la speranza che la Siria trovi la sua pace.
L’altra testimonianza è quella di Subhi Nahas, un ragazzo gay di 28 anni siriano che ora vive a San Francisco. Nahas era fuggito perché temeva che il padre potesse consegnarlo al Fronte Nusra, affiliato ad Al Qaeda, che aveva preso di mira anche gli omosessuali. Quando suo padre seppe che era gay, Nahas fu immediatamente cacciato di casa. Intorno allo stesso periodo – era la fine del 2013 – i combattenti Nusra hanno lanciato un mandato di cattura per i sospetti omosessuali nella città di Nahas, Maaret al – Numan, arrestando 25 ragazzi e annunciando attraverso gli altoparlanti della moschea che avrebbero ripulito la città da tutti gli omosessuali. Nahas era convinto che suo padre, o comunque la sua famiglia, presto o tardi lo avrebbero denunciato. Decise quindi di fuggire prima in Libano e in seguito in Turchia. Ma se Halaby è riuscito a trovare la sua sicurezza, per Nahas la Turchia era ancora troppo vicina al suo incubo: ha cominciato a ricevere minacce di morte da un ex compagno di scuola entrato nell’ISIS. Temendo per la sua vita ancora una volta, è fuggito negli Stati Uniti.
Ad agosto Nahas ha parlato della sofferenza e della situazione degli omosessuali nel suo paese in occasione della prima sessione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU alla luce della continua violenza e discriminazione nei confronti della comunità LGBT. La sua è stata un’importante e coraggiosa testimonianza per chi vive ancora in Siria e nei paesi dove gli omosessuali sono sempre più perseguitati.
Ed eccoci all’ultima storia. Omar (ha deciso di restare anonimo e di farsi identificare solo con il nome di battesimo) ha rilasciato la sua testimonianza: il giudice dopo aver emesso la sentenza ha chiesto ai due uomini condannati se accettassero la sentenza. “Preferirei che mi si sparaste in testa”, ha risposto impotente il primo uomo mentre il secondo uomo ha chiesto di avere la possibilità di pentirsi, promettendo che non avrebbe mai più fatto sesso con uomini. Naturalmente il tentativo è stato vano.
Omar, il testimone del duplice omicidio a Palmyra, ha deciso di parlare e non ha tralasciato nessun dettaglio. Il primo ragazzo gettato nel vuoto è stato legato ad una sedia. Atterrato sulla schiena, è stato freddato immediatamente da un colpo di pistola. Il secondo ragazzo è caduto di testa e morto sul colpo. I militanti hanno infierito, in accordo ai passi del Corano, lapidando i corpi ormai senza vita che sono rimasti appesi per due giorni con un cartello sul petto che recitava: “Ha ricevuto la punizione per praticare il reato della gente di Lot “
Il vero problema risiede nell’omertà: tutti si rifiutano di documentare le uccisioni, di identificare le vittime e addirittura di parlare. Vi è un clima di terrore non solo per i gay ma per l’argomento stesso. La maggior parte degli omosessuali si nasconde e solo i più fortunati riescono a fuggire all’estero. Questa è l’ISIS.
Fonte: Bassem Mroue, Associated Press
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