Il viaggio della vita, quel sospirato discrimine temporale fra libertà adolescenziale e maturità responsabile, quel ‘cielo di mezzo’ in cui tutto sembra possibile e nuovi mondi si schiudono davanti a sé, uno dietro l’altro. È questo L’estate addosso di Gabriele Muccino, suo decimo film, passabile commedia vacanziera on the road, low budget per i suoi standard americani ma non per i nostri (sotto i 4 milioni di euro).
Maria e Marco sono due diciottenni neodiplomati romani, lei è vergine e bigotta, lui inquieto e travolto da tempeste ormonali. Non si sopportano minimamente ma si ritrovano insieme ospitati da una giovane coppia gay di San Francisco, Matt e Paul; Matt legherà più con la ragazza che all’inizio definisce i due ‘pervertiti’ ma s’invaghirà di lui; Paul scoprirà in Marco un’amicizia sincera. Quella che doveva essere una tappa di qualche giorno si protrarrà per tre settimane.
Sorpresa: la coppia omosessuale non è affatto decorativa ma è la vera protagonista di tutta la prima parte del film con tanto di flashback a New Orleans in cui si racconta il loro fidanzamento – Matt ha trascorsi etero – e un doloroso outing (è la parte migliore). Nei panni dei fidanzati troviamo Taylor Frey e Joseph Haro – quest’ultimo è apparso in Glee – che se la cavicchiano anche se sembrano piuttosto impacciati a letto dove nemmeno si sfiorano (in compenso si vede il loro primo bacio in un bel totale, e per un prodotto destinato al grande pubblico italiano ciò non è per nulla scontato). Il rischio della ‘coppia perfettina’ inevitabilmente cool è sempre dietro l’angolo ma la svolta narrativa dell’indecisione di Paul sul suo lavoro di analista finanziario infonde umanità al personaggio. Certo, il limite di Muccino che nella – fragilotta – sceneggiatura si avvale della collaborazione dell’amico Dale Nell, è riassumibile in una scena fortemente simbolica del suo ormai classico L’ultimo bacio, coi protagonisti che si cimentano nel bungee jumping lanciandosi nel vuoto: le vere trasgressioni (qui, capirai: in un discobar si beve e limona duro) vanno irreggimentate sempre nella tranquillità borghese che alla fine domina e smussa ogni tentazione.
Convince meno l’ultima parte del film con la parentesi a Cuba dove ogni rampino narrativo è precluso in una sorta di Laguna blu da idillio onirico. Idem dicasi per la rapida pre-conclusione a New York. Pimpante colonna sonora di Jovanotti, di cui resta impressa però solo la gradevole canzone che dà il titolo al film.
Della ‘non coppia’ italiana è più bravo la rivelazione Brando Pacitto lanciato dalla sitcom di RaiUno Braccialetti Rossi, che smarca col suo Marco pieno di dubbi e incertezze quell’aura ‘alla Moccia’ che si temeva nelle prime inquadrature del film; Maria è interpretata da Matilde Lutz che ci è sembrata un po’ troppo avvolta in birignao e smorfiette, pronta a emanciparsi con un battito di ciglia.
Più malinconico e accorato dei precedenti film mucciniani, pur con un sottofondo di convenzionalità che sa di déjà vu (e una San Francisco troppo turistica e cartolinesca, tra Golden Gate e le Sette Sorelle vittoriane), si può comunque vedere.
Tranquillità borghese?? E perché non “sovrastrutture sociali” o “consiglio di fabbrica”. Ma come scrive? È la recensiome di un film o il cineforum post proiezione della sezione del partito comunista negli anno ’70 in Bulgaria? Comunque non credo che andrò a vedere un film così trito e ritrito come al solito in salsa adolescenziale romana e chissenefrega se lui ha gli ormoni a mille e lei è una stronza che non la dà ma poi ci domandiamo perché ci scartano da anni ai festival e agli oscar?