Prodezza atletica e stile fuori dal comune: nell’Olimpiade più rainbow di sempre nonostante le controversie, oggi tocca all* atlet* Raven “Hulk” Saunders brillare, alzando il secondo argento olimpico nel lancio del peso della sua carriera, dopo quello conquistato alle Olimpiadi di Tokyo 2020.
Classe 1996, persona lesbica e non binaria, attivist*, nat* e cresciuta a Charleston, nella Carolina del Sud – uno degli stati USA più conservatori – Saunders si fa notare per la prima volta alle Olimpiadi di Rio 2016, conquistando un impressionante quinto posto nella sua disciplina.
Al suo rientro, l’intera città è pronta ad accoglierla e a celebrarla, dedicandole il “Raven Saunders Day” con una parata tematica attraverso il centro cittadino. È solo l’inizio di una carriera promettente: il tempo per raggiungere il podio è ancora abbondante e le prospettive sono estremamente favorevoli.
Ma le cose non vanno come previsto. Saunders si trasferisce in Mississippi per iniziare l’università, cercando di bilanciare gli studi con la sua carriera atletica, che però inizia a vacillare. Le prime delusioni e i primi infortuni non tardano ad arrivare, insieme ai problemi economici. Nella mente dell’atleta cala il buio, e ha un’ideazione suicida nel 2018, appena due anni dopo il periodo più felice della sua vita fino a quel momento.
Si chiama “relatability” il concetto che descrive la capacità di un messaggio, una storia o un personaggio di essere percepito come vicino o facilmente comprensibile dal pubblico, generando un senso di connessione emotiva.
È un fenomeno sperimentato soprattutto da Gen Z e Gen Alpha nell’era dei social, degli influencer e delle celebrità “raggiungibili” come Raven Saunders, in cui tantissimi giovani della comunità LGBTQIA+ possono rispecchiarsi.
Le storie di successo infondono speranza, ma sono quelle di fallimento a renderci più umani, proprio perché il fallimento è un’esperienza fisiologica e condivisa. Saunders ne è profondamente consapevole, perché la sua è anche una rinascita.
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È la sua terapeuta a salvarle la vita, convincendola a chiedere aiuto. Le vengono diagnosticate depressione, ansia severa e disturbo da stress post-traumatico. Intraprende un percorso in una struttura specializzata per imparare a gestire la sua condizione nel miglior modo possibile, dando inizio a una lenta risalita, che culmina in prima battuta con l’argento alle Olimpiadi di Tokyo 2020.
In questa occasione, l’atleta fa il suo secondo debutto, questa volta come attivista. Durante la cerimonia di premiazione, solleva le braccia al cielo formando una X, un simbolo universale di sostegno agli oppressi, inclusa la comunità LGBTQIA+ di cui fa parte.
“Volevo dare visibilità alle persone in tutto il mondo che stanno lottando e non hanno la possibilità di parlare“.
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Le coloratissime maschere che Saunders indossa durante le competizioni hanno infatti un duplice utilizzo: da un punto di vista prettamente tecnico, servono a migliorare la concentrazione in pedana, perché l* aiutano a non farsi distrarre dalle avversarie e a pensare solo a sé stess* prima della gara.
Ma il suo costume da supereroe – talvolta una maschera, talvolta occhiali da sole e passamontagna – è anche e sopratutto un modo per far parlare di sè, e di conseguenza anche delle cause sociali per cui si batte in prima persona: la parità di dignità e trattamento delle minoranze etniche negli Stati Uniti, lo sdoganamento delle tematiche riguardanti la salute mentale e i diritti LGBTQIA+.
“Scherzi a parte – scrive Saunders in un post su Instagram – Crescendo come una ragazza nera, gay e con un fisico formoso, non mi sono mai riconosciuta in nessuna pubblicità di abbigliamento sportivo. Quando ho iniziato il college, mi sono promessa che un giorno sarei diventata il volto di una campagna, anche se non avevo il look standard. A tutti i giovani neri, LGBTQIA+ e a chi lotta con la propria salute mentale, voglio dire che l’unica persona che può mettervi dei limiti siete voi stessi. È vero, la vita per noi sarà dura, ma dentro di noi c’è una forza che ci ha sempre sostenuto e che continuerà a farlo finché continueremo a crederci”.
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