In una retata svoltasi lo scorso 28 luglio la polizia libanese ha arrestato trentasei uomini costringendoli a sottoporsi ad un test anale che, secondo le forze dell’ordine, avrebbe dovuto confermare la loro omosessualità. Una pratica che molti osservatori hanno paragonato alla tortura e che ha suscitato molte polemiche e reazioni. Quando la notizia si è diffusa, infatti, sabato scorso, l’associazione Helem, la principale organizzazione che si occupa dei diritti delle persone lgbt nei paesi arabi, ha organizzato una manifestazione davanti al tribunale di Beirut. Lo slogan scelto per la manifestazione era: "Ribellatevi contro i test della vergogna, vaginali o anali", in solidarietà anche con le donne, costrette a subire test della verginità.
Molti gli striscioni portati dagli attivisti. Uno di questi recitava: "Onorevole Ministro, prima di testare il mio culo, almeno abbia la bontà di invitarmi a cena”.
Il test anale imposto dalla polizia, però, non è stato condannato solo dagli attivisti lgbt. Anche i medici si sono formalmente opposti dichiarandolo scientificamente inutile e illegale. L’ordine dei medici, infatti, ha emanato una circolare che condanna questo esame ed esorta i suoi iscritti a disobbedire agli ordini della magistratura perché si tratta di "una pratica umiliante e vìola la convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura".
"Siamo qui perchè vogliamo una chiara presa di posizione da parte del Ministero della Giustizia sul fatto che questo genere di test dovrebbero essere completamente aboliti o perseguiti dalla legge – ha dichiarato, George Azzi, attivista di Helem – il sindacato dei medici ha dichiarato che sono irrilevanti dal punto di vista scientifico ed è illegale per i medici eseguirli, ma questo non impedisce alla polizia di richiederli".
In Libano l’omosessualità viene ancora considerata reato. L’articolo 534 del codice penale, infatti, la punisce con pene fino ad un anno di prigione.
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