Fassbender gay fa godere lo spettatore nell’estremo “Shame”

L'ambiziosa e borderline cineprova d'autore di Steve McQueen su un sex addict che scopre il cruising gay soddisfa nell'incipit e nel finale. Fassbender è bello e bravo ma il film s'ammoscia presto.

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"Shame", "Vergogna". L’insulto "Vergogna!" gridato a chi lo ama troppo, il sesso? O, al contrario, a chi si vergogna di amare troppo il sesso? Strano film, "Shame". Ambiguo. L’opera seconda di Steve McQueen, lanciatissimo videoartista/regista emergente di colore, vincitore della Caméra d’Or a Cannes nel 2008 con "Hunger", inedito in Italia, già adocchiato da Hollywood (la sua nomination agli Oscar per la regia di "Shame" è data quasi per certa), è queer, strano ed eccentrico. Un po’ deludente, però. Eppure fa venire voglia di rivederlo. A Venezia, l’autoriale ‘Shame’ aveva solleticato l’attenzione della stampa più pruriginosella, perché a proposito di quel sex addict newyorchese, il fascinoso Brandon, bello, di successo, ma profondamente infelice, interpretato con vigore e trasporto dall’ex barista Michael Fassbender (lui è grande, il ruolo minuscolo), nato a Killerney, cittadina irlandese tempestata da statue di San Brandano, si parlò soprattutto di nudo frontale, natiche polpose, prestazione da gran seduttore, audace e deciso: insomma delle sue scopate trionfali, non del film.

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Che è invece uno di quelle tipiche – e tedioselle – prove d’autore in cui, per raccontare la desolazione più totale, solitudine assoluta, me misero me tapino (ma con appartamento da urlo, donne da urlo, lavoro da urlo) e trasformare in immagini un desiderio erotico compulsivo, ci fa sorbire un’intera cena quasi senza dialoghi; ci fa ascoltare l’ineffabile "New York, New York" cantata con partecipazione emotiva da Carey Mulligan come una ballata dolente, senza alcun taglio (splendida scena, se si resta svegli); ci propina un pianto infinito per strada. Abbiamo già dato. Nel 2012 ci aspettiamo qualcosa di più. Eppure l’inizio acchiappa, con lo stallone da monta seriale atletico, animalesco, occhio glaciale che ti attraversa cuore e genitali e ha un suo guizzo, ma poi s’ammoscia in un’ora e mezza di noia pressoché totale, per poi riaccendersi nel finale, selvaggio e furente, con duo lesbichino e una scena di sesso gay totale, liberatoria, assoluta, la migliore del film, in un sex club che ricorda il "Rectum" di "Irréversible", dove finalmente Brandon può dar corpo alle sue pulsioni più profonde da basso ventre, compulsive e fino ad allora non appagate, per far gridare al suo cervellino piccolo piccolo: “Godo, dunque sono”.

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Ma trattare al cinema personaggi idioti non è facile: Brandon è uno scemo senza mezzi termini, come la sorellina Sissy, idiota e abbandonata (Carey Mulligan, troppo ‘carica’), che si odia ai massimi livelli ma il cui personaggio non ha alcuna progressione narrativa per l’intero film. Così il regista, non corroborato da una sceneggiatura sensata, la butta sul vezzo autoriale: ecco il nudo frontale reiterato in penombra; la poverina inquadrata insistentemente che si eccita in metro non appena lui le sfiora la mano (lo sguardo di lei è il più espressivo del film); la frignata infinita per le strade di una New York anonima che sembra Tokyo (con tanto di citazione di "Tokyo Decadence", ma in un’altra scena).
Non ne possiamo più di vedere al cinema il sesso trattato come una malattia mortale, un demone nefasto da cui fuggire, una piaga sociale: ben venga il cinema di Tinto Brass, a questo punto, che almeno un po’ di gioia di vivere, tra una tetta e un culo, la faceva trasparire. E poi basta col sesso gay raffigurato come se fosse l’ultima tappa prima dell’abisso assoluto, l’esperienza ultraperversa da ultima spiaggia o l’estrema frontiera dell’abiezione. Basta.

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Vogliamo sesso gaio e creativo, originale e divertito, ultragender e combinatorio: viva la fantasia.
Fassbender è bello e bravo, verrà probabilmente candidato anche lui all’Oscar dopo aver vinto la Coppa Volpi a Venezia ed essere in corsa per il Golden Globe (solo DiCaprio potrebbe rubarglielo, insieme al Globo d’Oro), è diretto con un’attenzione quasi amorosa da McQueen che a Venezia ha detto, tra il serio e il faceto, di essersi innamorato di lui, ma il film non ha mordente, non si infiamma, non fa godere lo spettatore. Tranne lì, nella testa del film e nell’acmè del climax, sì, quando sta per ‘venire’ al punto, dopo aver accumulato una forte tensione statica. Nel finale. Quando scatena davvero un fiume di endorfine arcobaleno nel corpo dello spettatore. È li che si gode davvero.

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