Cecenia, nuova testimonianza: la fuga di Amin dopo le torture

Amin è stato torturato e interrogato per due settimane. La sua storia si unisce a quelle (poche) che già sono venute alla luce.

testimonianza
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Amin Dzhabrailov è un ragazzo gay di 27 anni. Nel 2017 è stato arrestato e portato in un campo di concentramento in Cecenia, dove è stato torturato e interrogato per due settimane. A due anni dal suo rapimento e dalla sua seguente fuga, ha deciso di raccontare quello che gli è accaduto. La sua testimonianza si ricollega a quelle di altri sopravvissuti, che hanno descritto la loro prigionia. Non si trattava solo di interrogatori, ma di umiliazioni e violenze inaudite senza motivo, portate avanti da sadici agenti di Polizia.

Amin racconta di due settimane di terrore e di torture senza fine, giorno e notte. Il giorno che lo hanno arrestato, aveva appena finito di pranzare. Si stava per rimettere a lavoro (faceva il barbiere), quando degli agenti sono entrati in negozio, puntandogli le pistole contro. Non ha potuto fare altro che lasciare il lavoro e seguirli.

La testimonianza di Amin nelle due settimane di tortura

Amin è stato portato in un centro di detenzione dove erano già presenti altri 17 uomini omosessuali. Gli agenti presenti dimostravano fin da subito il loro odio e disgusto verso i prigionieri:

Nessuno voleva toccarti con le mani solo perché sei gay e disgustoso.

Una volta lì, è stato torturato quasi ogni giorno e ogni notte. Violenze psicologiche, con insulti di fronte agli altri, con epiteti offensivi di vario genere. Dal primo giorno, Amin è stato costretto a sopportare le botte dei soldati con calci e tubi, per poi essere collegato a dei cavi alle orecchie, ai piedi e alle dita delle mani, e ricevere un’intensa scossa elettrica. Alcune volte per puro divertimento (da parte della Polizia), altre volte durante gli interrogatori. La richiesta era sempre la stessa: dargli il nome di altre persone omosessuali in Cecenia. Oltre alle violenze, alle umiliazioni e alle offese, Amin doveva lavare i pavimenti della prigione e le macchine degli ufficiali. In quei momenti, pensava a come fuggire. In alcune occasioni, pensava anche al suicidio. Ma non c’era possibilità du fuggire, non c’era la possibilità di farla finita.

Un ricordo limpido nella mente di Amin è quando un poliziotto, dopo averlo schernito, aveva preso la pistola e gliela aveva infilata in bocca. Aveva pensato di morire. A stare lì, in due settimane, Amin aveva iniziato a vergognarsi di essere gay.

Il ritorno a casa e la fuga

Riconsegnato alla famiglia, l’agente che lo scortava ha chiesto ai genitori di Amin per qualche motivo non si eran presi cura di lui, gettando fango sul ragazzo e sulla famiglia intera. Amin, lì, non poteva rimanere. Ha quindi contattato Viskhan Arsanov, un uomo di Mosca che stava per lasciare il Paese. Dalla sua città, sono partiti per San Pietroburgo. Poi sono usciti dalla Russia per Toronto, in Canada. Qui hanno iniziato una nuova vita, insieme.

La testimonianza di Amin si conclude con la sua fuga, resa possibile dall’associazione Rainbow Railroad, la quale si occupa di far emigrare le persone LGBT da Paesi ostili.

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