È sempre un rischio affrontare al cinema il tema dell’identità sessuale nell’infanzia/preadolescenza, argomento delicato e controverso. Tra i migliori titoli del genere ricordiamo il belga Ma vie en rose, deliziosa commedia baby-camp del 1997 (a quei tempi il Presidente Onorario di Arcigay, Franco Grillini, anche psicologo, ci spiegò che «spesso a quattro anni i giochi sono già fatti riguardo all’orientamento sessuale»). Due anni dopo è la volta del ruvido Boys don’t Cry con una straordinaria Hilary Swank vincitrice dell’Oscar, ma i protagonisti sono più grandicelli. Più recente, del 2007, è il dramma argentino gender XXY di Lucia Puenzo che raccontava un raro caso di ermafroditismo.
Per qualità e una certa affinità di tematiche, ad essi si può affiancare Tomboy della trentenne Céline Sciamma, un delicatissimo film francese in uscita nelle sale italiane venerdì 7 ottobre grazie alla casa di distribuzione Teodora. Avevamo apprezzato il lesbico Naissance des pieuvres, l’intensa opera prima di questa regista emergente francese, che qui conferma il suo talento tornando a parlare d’identità sessuale.
In questo caso non si tratta di un gruppo di ragazzine adolescenti ma di una vivace bimba di dieci anni, Laure, che si spaccia per un "maschiaccio", Michaël – il "Tomboy" del titolo – col nuovo gruppo di amichetti appena conosciuti nel boschetto adiacente alla palazzina di un quartiere periferico di Parigi dove si è da poco trasferita in compagnia di mamma, papà e sorellina. Il nuovo arrivato è ben accolto dalla piccola comunità interetnica di ragazzini anche perché sa giocare bene al pallone e di lui/lei si prende una cotta la timida Lisa. Ma l’inizio della scuola si sta avvicinando, e non sarà facile mantenere il segreto.
L’indiscutibile punto di forza di questo ammirevole racconto di formazione è l‘incantevole protagonista Zoé Héran che è riuscita a trascinare nel cast i suoi reali amichetti, infondendo alle riprese una naturalezza assoluta di vita vera e vissuta. «Per ottenere spontaneità ho deciso annullare tutto quello che è il folklore del set – spiega la regista -. Entravo in scena, cantavo e ballavo con loro creando un’atmosfera giocosa. È brutto vedere sullo schermo i bambini ritratti come piccoli adulti finti oppure come dei bebè, io li trattavo come qualsiasi altro attore, pretendendo impegno e concentrazione, ma restando nella dimensione del gioco».
Un vero gioiello cristallino di sensibilità e delicatezza sulla perdita dell’innocenza, con lampi di grazia quasi truffautiana e una messa in scena limpida ed essenziale, in grado di far riflettere sulle dinamiche intrinseche del mondo infantile senza giudizi né pretese sociologiche: l’identità sessuale intesa come gioco smaliziato per la propria affermazione; la consapevolezza anche un po’ sofferta di quanto sia più facile imporsi come leader di un gruppo se si è maschi; l’apertura mentale dei più piccoli contrapposta ai dubbi pedagogici degli adulti.
Girato con solo mezzo milione di euro in una ventina di giorni e una troupe ridotta all’osso costituita da quindici persone, è stato già visto da più di 300.000 spettatori in Francia, uscirà in trenta Paesi e ha rastrellato i premi glbt più importanti: il Teddy Award al Festival di Berlino, il riconoscimento del pubblico a San Francisco nonché il Premio Ottavio Mai della giuria e quello del pubblico al torinese Da Sodoma a Hollywood.
Da vedere.
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