È un momento d’oro per i registi cileni, la cui cinematografia fino a qualche anno fa si poteva condensare nella visionarietà non allineata del grande Jodorowsky: alla Berlinale il favorito Pablo Larrain si aggiudica il secondo premio, l’Orso d’Argento ossia il Gran Premio della Giuria, per l’apprezzato “El Club” su un manipolo di preti pedofili, battuto dal ‘clandestino’ iraniano “Taxi” di Jafar Panahi, costretto ai domiciliari per una condanna del 2010 a sei anni di prigione e divieto per vent’anni di lavorare e andare all’estero. Il suo Orso d’Oro per un claustrofobico ritratto della società iraniana ‘rubata’ dall’interno di un taxi l’ha infatti ritirato sul palco l’emozionatissima nipotina Hanna Saeidi che ha solo detto: “Non sono in condizione di parlare”, più per un divieto di regime a rilasciare qualsiasi dichiarazione e intervista, esteso alla moglie di Panahi che era presente in sala, che per commozione manifesta. I migliori attori si sono rivelati i veterani inglesi Charlotte Rampling e Tom Courtenay per il dramma senile “45 years” di Andrew Haigh, scoperto dalla convincente ed elegiaca commedia gay “Weekend”.
Il Teddy Award, il tradizionale Orsetto destinato al miglior film lgbt, è andato a un altro regista cileno, Sebastián Silva per “Nasty Baby” (la produzione è però americana), su una coppia gay di Brooklyn che decide di avere un bambino grazie ad un’amica ma viene minacciata da un vicino omofobo. La motivazione della giuria composta da Predrag Azdejkovic, Yvonne P. Behrens, Nick Deocampo, Bradley Fortuin, Muffin Hix, Shana Myara, Gustavo Scofano, Mascha Nehls e Diego Trerotola parla di “audace intenzione di presentare un’urgente questione di moralità. Il regista Sebastián Silva affronta la vita di un artista medioborghese a Brooklyn mentre si scontra con le questioni di classe, razza e gentrificazione. Inizia come un film su una coppia gay e la loro migliore amica che cercano di concepire un bimbo e vira in una situazione macabra che simbolizza le grandi divisioni attraverso la comunità lgbt e la società. È un film provocatorio che tratteggia con sensibilità il sogno queer americano, e sottilmente implora a tutti noi di continuare a sognare”. Ancora il Cile trionfa come miglior documentario, “El Hombre Nuevo” di Aldo Garay (coproduce l’Uruguay): “Questo premio è il riconoscimento di vent’anni di lotta per la comunità trans in Uruguay attraverso la storia di una trans non vittimista che rifiuta di essere marginalizzata nonostante la sua situazione.
Questo film mostra la tensione fra religione, gender e identità sessuale in America latina in una maniera sia intima che potente. E ritrae la storia di questa notevole attivista, insegnante, rivoluzionaria, sorella e figlia che rappresenta significativamente il suo tempo ma va anche oltre”. Un premio speciale è andato al doc kenyota “Stories of our lives” di Jim Chuchu che “ritrae la grande forza e tenacia di fronte alle avversità e mostra un vitale livello di speranza per la Comunità LGBTQI. Esso getta luce sull’omofobia e mira a smantellare lo stigma e la discriminazione che si presentano ancora oggi, soprattutto nei Paesi dove l’omosessualità è criminalizzata e individui della nostra comunità sono minacciati di violenza a causa del loro amore. Questo cinema è coraggioso e bello, basato su storie vere che non possono non toccare ognuno di noi”. Anche come miglior cortometraggio è stata scelta un’opera cilena, “San Cristobal” di Omar Zùñiga Hidalgo. La giuria si è così espressa: “Consideriamo il film perfetto nella regia e recitazione, e un ritratto commovente di due uomini in un villaggio di pescatori nel nord del Cile le cui vite sono in pericolo una volta che viene scoperta la loro storia d’amore. Il film testa i limiti della felicità queer in quel determinato ambiente. Abilmente il film è costruito su diversi livelli di significati e di speranza, intorno alla promessa di San Cristobal di un passaggio sicuro”.
Uno speciale Teddy Award alla carriera è andato al grande attore tedesco Udo Kier, magnetico attore di Warhol e Von Trier, “oscillante per cinque decadi fra trash, pop, art house e due continenti”. Il David Kato Vision & Voice Award, dedicato all’attivista ugandese assassinato a casa propria il 26 gennaio 2011, è infine stato assegnato alla zimbabwese Martha Tholanah, impegnata nella lotta all’HIV e alla causa lgbt nel suo Paese.
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