IL MITO DELL'”EURO ROSA”

'Comprare' con il successo economico i diritti che non riusciamo a conquistare? Un modello che funziona - male - in USA ma che fallisce da noi. Dove viene prima la politica. Omofoba.

IL MITO DELL'"EURO ROSA" - gay shopping controverso - Gay.it
5 min. di lettura

Ne avrete sentito parlare tutti. I gay sono persone che, non avendo figli, possono destinare più soldi ai consumi voluttuari. Quando poi i gay stanno in coppia, i redditi sono addirittura due e i figli zero: “double income, no kids“.
Ed ovviamente in un mondo come quello gay, che si basa su un’accanita competizione sull’aspetto fisico, è elevato il consumo di beni e servizi per la bellezza: creme, profumi, abiti, biancheria intima, palestre… E per questi mercati (quelli del superfluo) il contributo economico dei gay sarebbe non solo significativo, ma addirittura decisivo.
Fin qui la teoria.
Che ho visto nascere, negli anni Ottanta. Quella del “mercato gay”, del pink dollar, fu all’inizio uno strumento polemico inventato negli Usa per tirare dalla nostra parte i settori più reazionari della società, che ai diritti civili non credono, ma al Dio Denaro sì, eccome.
Se non volete lasciarci in pace perché esseri umani, almeno lasciateci in pace per guadagnarci“. Il ragionamento, in sé, è raccapricciante (anche il pastore “lascia in pace” la pecora perché sia più grassa quando l’ucciderà per mangiarla…) ma, minimalismo per minimalismo, negli Usa ha funzionato: il mercato gay delle grandi città americane è sotto gli occhi di tutti, e fa girare miliardi, non noccioline.
Tutto fila, dunque? In gold we trust? Riusciremo infine a comprare ciò che non riusciamo a conquistare?
Non scherziamo. Punto primo, il pink dollar è uno strumento a doppio taglio, e punto secondo, in Italia s’è rivelato uno strumento spuntato.
Quanto al primo punto, ciò che sfugge ai teorici del pink dollar è che la comunità gay non è affatto “mediamente più ricca della comunità eterosessuale”. Banalmente, essere gay secondo lo stile di vita Usa è più costoso che essere etero, perché presuppone individui in grado di cavarsela da soli, cioè con accesso a lavori e stipendi tali da renderli autonomi. Quindi, solo gli omosessuali più ricchi possono far parte di una comunità gay strutturata secondo questo punto di vista.
Viceversa, i working poors (coloro che guadagnano salari insufficienti a pagare le spese vive di mantenimento) non hanno mai potuto fare a meno della famiglia tradizionale, intesa in primis come luogo di condivisione delle spese e supporto economico nei momenti difficili (non a caso, anche in Italia le aree più povere sono quelle in cui i gay “velati” si sposano di più). Nella loro condizione socio-economica, l’appartenenza alla comunità gay è un lusso.
Se sei nero e disoccupato, non puoi permetterti di uscire tutte le sere in locali trendissimi, spendere una fortuna in cosmetici, vestiti, coca e crystal (a meno di prostituirti o spacciare, il che non tutti gradiscono fare…). Ti limiterai magari a “battere”, gratis, nei cessi della stazione, o nel parco.
Prima di tornare da tua moglie.
(In margine. Di recente ho sentito ripetere che la teoria del pink dollar è stata inventata dai nemici dei gay, per metterli in cattiva luce fra la popolazione più povera, in quanto plutocrati privilegiati che pensano solo a spassarsela, mentre le famiglie etero non hanno i soldi per pagare il dentista per i bambini.
Vorrei che così fosse… ma purtroppo la tesi del pink dollar l’hanno inventata e promossa i gay. Di destra, ovviamente, però gay…).
Quanto al secondo punto, proprio il caso italiano dimostra che i diritti civili non si possono comprare. Il mito della “lira rosa”, importato ottusamente senza chiedersi se da noi si applicasse, ha infatti costellato la strada italiana di cadaveri economici.
Ogni tanto qualche “capa fresca” parte con l’idea che “i gay sono ricchi e spendono”, e getta a terra un tot di milioni per lastricare la nuova strada da percorrere per “sfruttare” il mercato gay. Quando poi i soldi gettati a terra non germogliano e non producono zecchini, inizia a strillare all’ingratitudine della comunità gay italiana…
Che però non ha mai detto che gli zecchini crescono sugli alberi…


***

Il problema è facile da inquadrare. Parlavo di recente con lo Sneg, la “confindustria” delle imprese gay francesi. Che valutava che in Francia esistano 1200 imprese rivolte al mercato glbt, di cui 700 associate allo Sneg.
In Italia, invece, contando tutte le realtà elencate nelle guide gay, fra grandi piccole e micro, arriviamo al centinaio. Dieci a uno. E l’Italia ha l’identica popolazione della Francia, e un reddito di poco inferiore.
La differenza, dunque, non può essere altro che di mentalità e politica.
In effetti, in Italia il pregiudizio verso l’omosessualità è talmente forte che (quasi) nessun imprenditore “serio” vuole sporcare la propria immagine con questo disgustoso mercato.
Chiediamoci perché al 95% gli imprenditori che si rivolgono al mercato gay siano gay essi stessi. Se le cose stessero come pretendono i teorici dell'”euro rosa”, le prospettive di mercato dovrebbero attrarre capitali anche da investitori eterosessuali. Non si contano, nel mondo gay, le storie di prostituti o spacciatori che, iniziato con capitali minimi e un barettino mignon, sono ora milionari (in euro) e gestiscono locali enormi. Dunque, le potenzialità ci sono e, come mostra il confronto con la Francia, il mercato è sottosviluppato.
Purtroppo, in un mercato dominato da imprenditori fai-da-te di questo tipo, chi cerca di competere in modo onesto è handicappato. E quindi si rafforza la prevalenza degli “imprenditori” di tal fatta. È di qualche anno fa il caso d’una catena americana di saune che venne in Italia decisa a espandersi acquistando saune già esistenti. Si parlava d’un investimento di almeno una decina di miliardi di lire! Ebbene: gli americani vennero, fecero un giro, videro in che mani era il mercato italiano… e investirono in Spagna.
Checché ne dicano gli ideologi del liberalismo, insomma, non è l’economia a decidere la politica, ma il contrario.
E in Italia stiamo scontando l’ottusità di questa “classe imprenditoriale” in gran parte ostile al movimento gay e alle sue idee, senza rendersi conto del fatto che perché ci siano clienti gay occorre che esistano in primis gay che si accettano in quanto tali, e poi che costoro siano vivi (ma guai a parlare di distribuzione gratuita di preservativi in certi locali!).
No, non sarà l’euro a salvarci. Gli imprenditori etero disprezzano troppo gli omosessuali per investire nel nostro mondo. Quando mi viene chiesto (allo sfinimento) perché il giornale che dirigo non pubblichi pubblicità d’aziende non gay, nessuno mi crede quando rispondo che le aziende non la vogliono fare nemmeno se gliela regalo. E se mi sfugge un marchio di un’azienda non gay, mi fanno scrivere dall’ufficio legale intimandomi di non farlo più!
I gay italiani non riescono a crederci. Non riescono a credere che in un momento in cui gli affari calano, esista una mentalità che preferisce il fallimento piuttosto che il ricorso al mercato gay: altro che euro rosa!
Eppure così è.
Eppure ogni tanto ci tocca vedere casi come quello di “Gay.tv”, che ha sperperato una decina di milioni di euro  per inseguire un progetto rivolto alle aziende etero, scoprendo troppo tardi che il preconcetto politico-culturale castrava qualsiasi prospettiva di mercato. Ma in un Paese in cui un ministro ci chiama culattoni, un altro finocchi, e un altro immorali, cos’altro aspettarsi?
Gay.tv si è “accorta” troppo tardi del fatto che l’imprenditoria gay in Italia è prima di tutto un affare politico, e solo in seconda battuta, economico.
Insomma, non sarà l’economia a salvarci, semmai l’esatto contrario: il mercato gay partirà solo il giorno in cui saranno abbastanza numerose le imprese create e gestite da persone con una storia vicina alle idee del movimento gay (e Gay.it è esattamente uno di questi casi), che non si fanno illusioni sull’apertura mentale degli italiani e del potere politico, e che capiscono l’importanza di reinvestire una parte dei profitti nella creazione di un’identità gay forte, positiva, visibile e orgogliosa.

di Giovanni Dall’Orto

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