‘Transamerica’ è il primo film su un nuovo concetto di famiglia. Non solo perché la brava protagonista concentra in sé i ruoli di padre/madre, fratello/sorella ma in quanto si approfondiscono (finalmente) i rapporti filiali e parentali prescindendo dal classico ruolo sociale della famiglia tradizionale: l’amore che nasce tra Bree e il figlio non è una conseguenza ‘imposta’ dalle responsabilità coatte di genitore-genitrice, quanto un moto spontaneo che parte da una visione amicale della relazione.
Riguardo alla riuscita metamorfosi della ‘casalinga disperata’ Felicity Huffman nella transessuale Bree/Stanley è quasi superfluo pensare a quanto sia credibile: dopotutto, osservandola attentamente, si coglie quasi subito che Sabrina è interpretata da una donna, ma questa considerazione passa in secondo piano se si capisce quanta umanità, quanta profonda sensibilità la Huffman sia riuscita a infondere al suo personaggio, senza ‘caricarlo’ di sfumature grottesche o patetiche sottolineature. Altra qualità del film, dare spazio e spessore ai personaggi secondari, ruoli non meno difficili e complessi: Kevin Zegers (teniamolo d’occhio) negli sdruciti panni di Toby non insiste sul ‘maledettismo’ da adolescente disadattato e profonde erotismo in ogni scena; Graham Green, indimenticato ‘uccello scalciante’ di ‘Balla coi Lupi’, è una spalla amorevole e rasserenante; i genitori di Bree, Fionnula Flanagan e Burt Young, si tengono in sottile equilibrio tra isteria e comprensione quando si vengono arrivare in casa il figlio gender-bender con tanto di neonipote. Grande importanza viene data al contesto naturale, solare e splendido (come in ‘Brokeback Mountain’), accogliente in superficie ma ostile socialmente. È curioso infine come ‘Transamerica’ riesca a parlare di una quantità impressionante di argomenti (oltre al transessualismo, la violenza sessuale, la pedofilia – la tremenda apparizione del patrigno che violentava Toby – l’alcolismo e persino l’ossessione religiosa) con un tono miracolosamente lieve che sfuma a un passo dalla tragedia ed evita il melò con un’ironia rara che fa scappare più di una volta il sorriso se non la risata.
Il merito va indubbiamente anche alla regia accorta di Duncan Tucker, brillante esordiente nel lungometraggio, nato a Kansas City (Missouri), cresciuto in Arizona, a Phoenix, ed emigrato a New York City per realizzare il suo sogno di fare il cineasta. Lo abbiamo intervistato.
Che cosa pensa dell’attenzione speciale che si avverte in questo periodo nei confronti dei film gay? Secondo lei riflette un vero interesse da parte della gente per questi argomenti?
Io, Ang Lee e Bennett Miller ci siamo messi insieme qualche anno fa e abbiamo creato una cospirazione per una guerra culturale… No, scherzo! Storicamente, i film con rilevanza storica e politica hanno spesso avuto attenzione da parte dell’Oscar: penso a ‘Il pianista’, ‘Boys Don’t Cry’, ‘American Beauty’, ‘Dead Man Walking’. Quest’anno quasi ogni film nominato e molte performances attoriali finiscono in questa categoria. Sembra che i registi e i membri dell’Academy siano coscienti dei tempi difficili in cui viviamo, e vogliano essere diversi. Il cinema e la tv sono grandi barometri della cultura popolare, io credo che il successo di questi film sia una novità piena di speranze.
Da dove è nata l’ispirazione per un film come ‘Transamerica’?
La protagonista di ‘Transamerica’ è una transessuale ma l’argomento del film non è la transessualità. È piuttosto la famiglia o il problema di crescere. I gay hanno delle famiglie, invecchiano, mentre spesso l’argomento dei film ‘queer’ è proprio la ‘gaytudine’ stessa. Spero che Transamerica sia sovversivo in questo, non cerca una spiegazione sulla storia di ‘genere’ della protagonista, né ne fa il nocciolo del film o cerca di spiegarlo.
Ci sono stati film di riferimento per lei?
I film che mi hanno ispirato non sono necessariamente gay. In ‘Transamerica’ ho citato ‘Il Signore degli Anelli’ perché Bree, come Frodo, deve intraprendere una ricerca per sbarazzarsi di un tesoro che non ha mai voluto avere. Incontra amici e nemici lungo la strada e torna a casa cambiata. Tra gli altri penso anche alle ‘screwball comedies’ di Preston Sturges, i lavori di Jean Renoir e ‘You Can Count On Me’ (di Kenneth Lonergan, n.d.r.).
Come ha girato la scena in cui Toby scopre, vedendolo, il vero sesso di Sabrina?
È stata una scena difficile da un punto di vista emotivo. L’abbiamo girata con due sole riprese.
Come definirebbe in tre parole l’interpretazione di Felicity Huffman?
Gliene dico quattro: divertente, emozionante, audace e onesta.
Nel suo film affronta anche la questione religiosa. Che cosa pensa della situazione italiana in cui sia il governo che la Chiesa è riluttante a concedere alcun diritto alle persone gay e transgender?
Aborrisco la politica della Chiesa incentrata sulla paura e sull’odio. Ogni bambino non dovrebbe sentirsi indegno o non amato a tal punto da dover nascondere una parte essenziale del suo essere. Questo è abuso infantile psicologico. Nessun essere umano dovrebbe sentirsi umiliato dallo stato o dalla Chiesa per la sua natura.
Uno dei suoi hobby è la pittura. Che genere di dipinti realizza?
Di solito faccio collages di fotografie e creo poi dei dipinti. I soggetti sono molto drammatici. Ho creato panorami che non esistono nella realtà facendo mosaici con pietre, erba, sabbia e acqua. E ci sono sempre raffigurate alcune persone. Uno è appeso a un muro della mia casa di Phoenix e si vede nella scena in cui Bree svela a sua madre che Toby è suo figlio.
Sta già lavorando al suo prossimo film?
Adesso mi dedico alla lettura di sceneggiature, forse troverò qualcosa che mi piace veramente. Quando le cose si calmeranno un po’ e troverò un po’ di pace, riprenderò a scrivere, ho molte idee.
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