“Quanto alla sua vita, abbiamo sempre saputo quanto fosse affascinante e generoso. Adesso abbiamo anche imparato che era scaltro, egoista, in preda ai suoi stessi demoni. Sono cose che non si possono cancellare, né si può far finta che non esistano. Non ci resta che accettarle, che accogliere quel che suscitano in noi – sgomento, dolore, ira, compassione – e tentare di trasformarle in consapevolezza.”
La visione di Leaving Neverland, discusso documentario di Dan Reed prodotto da Amos Pictures e HBO, che definisce come una sorta di pacata e tremenda tragedia shakespeariana disseminata di cadaveri, nella fattispecie quelli di bambini abusati sessualmente, la sconvolge: sull’onda di questa emozione decide, per l’edizione italiana, pubblicata da 66thand2nd e in libreria da nemmeno due settimane col titolo Su Michael Jackson (On Michael Jackson), di scrivere una prefazione inedita.
Un testo che cerca di rispondere alla sempiterna domanda “separare o no la vita dall’arte?” e che arricchisce appositamente questa particolare versione, tradotta da Sara Antonelli, della sua opera comparsa per la prima volta negli scaffali delle librerie a stelle e strisce nel 2006, un anno dopo che il protagonista di questa biografia era stato prosciolto dalle accuse – dieci le imputazioni, c’è un intero capitolo dedicato al processo – di aver abusato di Gavin Arvizo, all’epoca dei fatti contestati un ragazzino.
Lei è Margo Jefferson: è di Chicago, è altoborghese, è nera, è stata cheerleader, ha letto Baldwin, sostiene che sesso, classe e razza, presi in qualsiasi ordine, siano la sua personale trinità mondana, è un’attivista, ha settantadue anni da compiere, insegna alla Columbia, ha scritto di teatro e letteratura per il New York Times, il Guardian, Vogue, Newsweek, New York Magazine, The Nation, Guernica, ha vinto il Premio Pulitzer, il National Books Critics Circle Award e il premio The Bridge per il suo ottimo memoir Negroland. E ama, da vera fan, sin da quando ha vent’anni, lui.
Lui è il bambino prodigio violato dal padre e di certo anche da altri adulti del mondo discografico. L’interprete inarrivabile che non è riuscito a interrompere la catena di violenza, che ha saputo dissimilarsi solo attraverso il continuo tagliuzzamento del suo viso, per cui anche i fratelli, di cui proprio perché prodigio ha reso insopportabile l’esistenza, lo prendono in giro. Il figlio di una donna bigotta e tradita.
Ma anche il bimbetto inquietante, il ragazzo enigmatico e vagamente triste, il poliglotta culturale, il mutaforma bambino-uomo-donna-cyborg-extraterrestre. L’icona che come ogni stella ritiene la chirurgia plastica, in un’America ossessionata dal ritocchino, un diritto, che vede in Barnum un modello, per cui Elvis Presley, Diana Ross, Elizabeth Taylor sono parte del suo sé, che al cinema vorrebbe essere Peter Pan o Edgar Allan Poe.
E poi l’artista dalle dita lunghe che si allungano sempre sul pene, osservato dagli accademici dal punto di vista della decostruzione, della teoria post-coloniale, della teoria queer, quello a cui Margo Jefferson voleva restituire quanto gli spettava prima che lo distruggessero e che si distruggesse: in due parole, Michael Jackson.
“Diventò l’avatar del mondo trans-razziale, trans-gender e trans-specie. E tutto questo mi rese felice.”
Freaks, Casa, Piccola star, L’unico della sua razza. L’unica del suo sesso, Il processo: in cinque capitoli e complessivamente in poco più di cento pagine Margo Jefferson condensa una vita e un immaginario collettivo, anche del divismo.
“Le piccole star sono innanzitutto performer. Malgrado i trionfi, faranno sempre in modo di esibire tutte le loro cicatrici. È il prezzo del biglietto d’ingresso.”
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