A 24 ore da Italia-Austria, ottavo di finale di Euro 2020, ‘scoppia’ il caso azzurri. I calciatori della nazionale italiana hanno infatti annunciato che mai più si inginocchieranno per dire basta al razzismo, come accaduto solo in parte durante la partita contro il Galles.
Catapultati nel dibattito politico, perché in 5 (Toloi, Pessina, Emerson, Bernardeschi e Belotti) si sono inginocchiati domenica scorsa all’Olimpico, con sei azzurri rimasti in piedi. Apriti cielo. Onde evitare il bis, la squadra di Mancini ha deciso di uniformarsi, decidendo di rimanere in piedi. Sempre e comunque.
Secondo quanto riportato da LaRepubblica, “c’è stato chi ha rivendicato la libertà di espressione e il rispetto delle proprie idee, chi non ha accettato pressione dall’esterno“. E duole dirlo, ma la decisione presa è clamorosamente errata, anacronistica con il tempo che stiamo vivendo, proprio un anno fa segnato dalla morte di George Floyd, ucciso da un poliziotto con un ginocchio sul collo a togliergli fiato, parole, vita.
La nazionale italiana e i suoi calciatori continuano a non capire l’importanza della loro spaventosa visibilità, dello sport come veicolo educativo. Al rispetto, contro ogni discriminazione. Il calcio non è solo un giuoco in cui 11 ragazzi inseguono un pallone, dopo aver intascato ricchi assegni, collezionato auto, fidanzate e milioni di follower. È lo sport più seguito al mondo. I calciatori sono divi idolatrati, strapagati, seguitissimi sui social, ‘modelli’ per i più giovani. Dire no al razzismo con un simbolico gesto non equivale a fare politica, per quanto non ci sarebbe niente di male ad esporsi anche sul piano strettamente politico, ma molto banalmente chiedere a milioni di tifosi di guardare oltre l’ignoranza.
E se la Germania ha smosso mari e monti pur di dire basta all’omotransfobia dinanzi all’Ungheria di Victor Orban, con il capitano in campo colorato di rainbow e 10.000 tifosi in festa vestiti d’arcobaleno, l’Italia di Mancini fa (s)parlare perché ancora una volta ancorata ad una visione ‘democristiana’ di sè. Meglio non esporsi, mai. Limitarsi a giocare, sempre, diffondendo banalità, senza mai toccare temi legati all’attualità, alla cronaca. Si citano Lino Banfi e il suo mitico allenatore nel pallone ad ogni intervista, si intona Notti Magiche ad ogni partita vinta, ma non sia mai metterci la faccia su un argomento tanto attuale, drammaticamente attuale, che coinvolge in prima persona quegli stessi calciatori dagli spalti travolti da ululati e insulti razzisti una domenica sì e l’altra pure.
“Non mi piace quando le persone con un certo status parlano di politica”, disse il milanista Zlatan Ibrahimovic lo scorso anno. “Limitati a fare quello in cui sei bravo, meglio tenersi lontani da certi argomenti”.
“Non c’è modo che io stia zitto di fronte alle ingiustizie e mi limiti allo sport”, rispose secco LeBron James, stella NBA. “Io sono parte della mia comunità e ho oltre 300 ragazzi nelle mie scuole che hanno bisogno di una voce e io sono la loro voce. Sono la persona sbagliata da criticare su questo campo perché ho una mente ‘molto educata’ e ho fatto i compiti. Mi occuperò sempre di temi come l’uguaglianza, la giustizia sociale, il razzismo, l’assistenza medica e il diritto al voto. So quanto è potente la mia voce e la ‘piattaforma’ da cui parlo e la userò sempre per occuparmi di certe cose, nella mia comunità, nel mio paese e in tutto il mondo”.
Parole che in casa Italia, evidentemente, da una parte sono entrate e dall’altra sono uscite. Come si può avere timore di essere strumentalizzati per un simbolico gesto (in mondovisione) contro razzismo e omotransfobia? Come si può avere paura di un arcobaleno, di un ginocchio poggiato in terra? In attesa del match contro l’Austria, e di una possibile vincente cavalcata verso la finale di Wembley, la pavida Italia del calcio ha perso la partita della solidarietà. E la faccia.
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