Questione di attributi

Da sempre quello che abbiamo tra le gambe ci fa sentire virili e coraggiosi. Ma c'è anche chi misura la forza con un diverso metro.

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3 min. di lettura

Ho letto con raccapriccio la notizia dell’abbonato Rai rimborsato da un giudice di pace perché offeso nella sua religiosità dalla puntata di Anno Zero sulla pedofilia nella Chiesa. Come giustamente qualcuno faceva notare nel forum, noi gay dovremmo avere allora risarcimenti miliardari. Se ovviamente non fossimo considerati cittadini di serie B per colpa dei politici (e in parte anche nostra). Ci consola soltanto saperci parte di un Europa civile, visto che poteva andarci peggio.

Potevamo trovarci ad avere a che fare con le impiccagioni arabe oppure con chi spara sulla folla e poi accusa di terrorismo il Dalai Lama. Stati dove di diritti della persona nemmeno si parla e nei quali, ancora più che nel nostro, vige l’idea che sia il maschio a portare i pantaloni e che i cosiddetti ‘attributi’, oltre a una presunta virilità, significhino anche forza.

Anche se un po’ ovunque la loro perdita è prospettiva inquietante, perfino per gli omosessuali meno inclini a perpetuare la propria casata. Per questo motivo anche chi cambia sesso, pur avendo la ferrea convinzione di essere nato nel corpo sbagliato, deve seguire un apposito percorso psicologico. Perché, me lo spiegava un giovane trans (parlo al maschile perché da donna è divenuta uomo), non è facile abituarsi presto alla perdita dei propri compagni di infanzia (e soprattutto di adolescenza).

Anche per questo sarebbe auspicabile che certi politici (e certi giudici) vivessero sulla propria pelle le cose di cui parlano con troppa leggerezza. Sarebbe utile studiare anche le trasformazioni dovute a mutate situazioni politiche e testimoniate dalla sparizione dei simboli: iscrizioni o monumenti dei defunti regimi totalitari o stemmi eliminati dalle bandiere (come quello sabaudo dal nostro tricolore o quello della bandiera rumena del dopo Ceausescu).

Se vi starete chiedendo cosa c’entra questo con il sesso e la castrazione, vi svelerò che l’associazione mi è venuta quando ho scoperto che all’estero, anziché rimborsare turbati sentimenti religiosi, si è pronti a mettere in discussione perfino i simboli della virilità, per non incrinare una raggiunta parità tra i cittadini. In particolare, per non offendere le ragazze soldato svedesi del Nordic Battlegroup, incapaci di identificarsi con il leone maschio dello stemma.

L’animale, presente nella tradizione dei Paesi della forza di protezione dell’Unione Europea in aree di crisi, aveva già dovuto accettare un compromesso per rendere il nome del reparto meno aggressivo: in una zampa la spada, ma nell’altra un ramoscello di ulivo. Fino a che il generale Engelbrektson non ha deciso di privarlo anche dei troppo evidenti attributi sessuali.

A nulla sono valse le proteste del disegnatore, autore di altri simboli militari, tra cui un cavallo con otto zampe e un rigonfiamento vistoso, che sosteneva che i leoni castrati rappresentano da sempre i traditori della Corona. Simili motivazioni non sono sufficienti per il Paese del Nobel e di Ikea, sensibile all’eguaglianza dei sessi e ligio alle raccomandazioni dell’Onu di impiegare personale femminile nelle missioni di pace.

E quando un blog militare americano ha commentato con sarcasmo: "Un leone castrato: il giusto simbolo per la difesa europea", non è successo nulla. Perché i Paesi civili proseguono per la loro strada, infischiandosene degli sberleffi di chi manda la gente a morire per esportare la Democrazia, come delle proteste di chi si offende per una vignetta o delle marce dei celibi e dei divorziati in difesa della famiglia. In Italia probabilmente avrebbero risarcito il leone.

Flavio Mazzini, trentacinquenne giornalista, è autore di Quanti padri di famiglia (Castelvecchi, 2005), reportage sulla prostituzione maschile vista "dall’interno", e di E adesso chi lo dice a mamma? (Castelvecchi, 2006), sul coming out e sull’universo familiare di gay, lesbiche e trans.

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di Flavio Mazzini

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