Rio 2016: ecco perché amiamo queste olimpiadi del femminile, del corpo e dell’amore

Le olimpiadi in corso in Brasile sono molto più di un internazionale evento sportivo: sono la riscrittura emotiva e sentimentale delle identità incarnate.

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Si parli di sport, questi ragazzi sono degli atleti. Ma sono lì a gareggiare o a dire i fatti i loro? Ma la notizia è la vittoria o il coming out? Rio 2016 ci sta confermando che le questioni centrali del nostro tempo riguardano essenzialmente le identità calde – incarnate – delle persone. La gara, lo sport finiscono quasi sullo sfondo, eclissati dal racconto di queste esistenze un tempo proibite, sommerse, indicibili.

Si parla di orientamento sessuale, di rappresentazione dell’identità femminile, di migranti, dell’importanza simbolica del corpo.

A qualcuno questo non piace. Spuntano di continuo appelli nostalgici al sano sport di una volta, animati dal fastidio per tutto questo privato che irrompe a contaminare, a richiedere attenzioni, a creare nuove gerarchie, dove ahimè i maschi eterosessuali non sono più i soli a stare al centro della scena.

Ma ci manca davvero quello sport ben circoscritto nei limiti tradizionali del rapporto tra i sessi, del machismo, dell’assenza di alternative per le identità altre?

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In realtà, diciamolo, questi tentativi lasciano un po’ il tempo che trovano, non c’è più spazio per loro, nel mondo. La contemporaneità è ormai affamata di storie, del racconto delle identità, dei gusti, delle inclinazioni. E lo sport oggi può trovare celebrazione di massa forse solo a patto di sintonizzarsi con queste istanze. Di incarnarsi, di raccontare le vite degli altri, ovvero le nostre. Questo Rio ci sta mostrando. Meravigliosamente.

Credo saremo tutti d’accordo che queste olimpiadi di Rio de Janeiro sono un evento più unico che raro. Lo sport c’è, certo che c’è. Ma c’è molto altro, e lo stiamo vedendo. Le notizie arrivano quotidianamente. Le location olimpiche sono un grande teatro di esibizione e liberazione dell’orgoglio non solo gay, ma anche femminile, transessuale e eterosessuale ma con una piega nuova, emotiva, narrativa.

I maschi li chiamano pettegolezzi, le femmine storie.

In primo piano Rio ha portato e porta i corpi. Cicciottelli, velati, esibiti, pieni di senso. Tutt’attorno le parole che li raccontano, li esaltano, li sanzionano. In ogni caso li mettono in circolo e forniscono innumerevoli nuove occasioni per immaginare inusitati modi di toccare narrativamente e mediaticamente l’identità incarnata.

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Addirittura un direttore di quotidiano da noi è stato licenziato, per aver permesso che sul suo giornale si facesse di riferimento a tre atlete attraverso il loro aspetto fisico, il loro peso. Un precedente importante per il futuro, su cui pure molto si è discusso.

Rio è l’Olimpiade delle donne, dei fr*ci, dei e delle transessuali. Dei 40 e passa atleti omosessuali – lista che viene aggiornata quotidianamente, perché i coming out sono continui – ma anche ahimè l’olimpiade dell’azione scellerata e cannibale di giornalisti senza scrupoli, come quella della trappola del Daily Beast con Grindr usato per rivelare l’identità degli atleti non dichiarati.

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E se questo cinismo turba e indigna, va detto che al contempo segnala un interesse, una bisogno sociale di racconto, di cronaca nuova, mutuata dal racconto dei social networks.

E poi l’amore di Tim Daley.

La potenza di Lea T, prima trans a sfilare alla cerimonia d’apertura, che ha fatto il giro lungo, trascorrendo l’infanzia in Italia, per poi tornare in Brasile a reggere la bandiera del suo paese all’inaugurazione.

Il bacio tra i due tedofori a Ipanema.

L’impetuoso orgoglio di Amini Fonua, che ha protetto i suoi amici dall’outing vergognoso facendo vedere al mondo il suo coraggio e il suo culo meraviglioso.

La proposta di matrimonio tra due ragazze in un campo da rugby.

La dolcezza di Rachele Berni che ieri ha dedicato la vittoria alla fidanzata, senza bisogno di coming out, peraltro.

Le Olimpiadi sono evento antichissimo e proprio per questo sono diventate un eccezionale campo di osservazione delle mutazioni della società. Nella nostra epoca sempre più plasmata dal funzionamento dei social, il racconto di sé non non si interrompe praticamente mai. Non si interrompe neanche durante gli eventi più delicati della vita, durante le tragedie, figurarsi durante una gara sportiva.

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Il privato è diventato davvero pubblico e politico, e forse solo così saremo tutti un po’ più protetti in futuro. Difficile prevedere dove ci porterò tutto ciò ma sicuramente ora già dice moltissimo. Ci piace e ci commuove.

Grazie al Brasile, perché probabilmente altrove tutto questo non sarebbe successo.

Jonathan Bazzi

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