‘RuPaul e le altre’, intervista al curatore e traduttore Matteo Colombo

Dalla scoperta di Drag Race in un locale di Berlino, fino all'ossessione. Matteo Colombo, traduttore e curatore di "RuPaul e le altre" (Vallardi Editore), ci parla della nascita e delle radici socio-culturali del programma.

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8 min. di lettura

Mancano pochi giorni all’inizio di Drag Race Italia. Venerdì 19 novembre, potremo assistere alla prima puntata del programma, che andrà in onda su Discovery+, per poi arrivare, a gennaio, su Real Time.

Abbiamo assistito a una breve anteprima del programma durante la conferenza stampa al Teatro Gerolamo di Milano, dove abbiamo incontrato e intervistato il traduttore Matteo Colombo – nel 2014 è uscita per Einaudi la sua nuova traduzione del Giovane Holden di J.D. Salinger – grande appassionato di Drag Race, in tutte le sue edizioni, fino all’ossessione (più avanti nell’intervista la definirà “malattia”).

Per Antonio Vallardi Editore, Colombo ha curato e tradotto RuPaul e le altre, saggio scritto da Tom FitzgeraldLorenzo Marquez. Il libro ripercorre le tematiche relative al programma, andando ad ampliare il discorso fino a toccare la storia della comunità lgbtqia+ negli ultimi cento anni.

RuPaul e le altre è un saggio che fa chiarezza sulle radici di un programma di intrattenimento e camp (già Sontag ci ha spiegato quanto il camp sia essenziale e imprescindibile per la nostra cultura), ma di enorme valore socio-culturale e politico.

Matteo Colombo nell’introduzione a RuPaul e le altre scrive: “Se oggi molti considerano il drag un’arte, una possibile carriera, oltre che un elemento fisso del paesaggio culturale, lo si deve in buona parte a RuPaul Charles. Ma l’effetto più dirompente di RuPaul’s Drag Race è stato forse quello di aver introdotto nel mainstream una varietà di temi e istanze LGBTQ senza precedenti“. È in queste parole che risiede tutta la rivoluzione di un programma che continua da più di dieci anni a incantare, creare comunità e a sdoganare molti aspetti legati alla nostra comunità.

“Dedicato a tutte le indomite dee guerriere che hanno pestato i piedi, marciato e danzato, in zeppe e tacchi a spillo, perché altre e altri potessero camminare liberi e fieri” 

Vallardi Editore
RuPaul e le altre, Vallardi Editore, Traduzione e curatela di Matteo Colombo, pp. 288, 19,90€

Dove nasce il progetto e qual è per te il valore di questo libro?

Questo è un progetto che è stato intuitivamente intercettato dalla mia editor, Marcella Meciani di Vallardi, e ha un taglio pop. Io, di solito, lavoro nella narrativa, cioè un altro tipo di editoria. Però sono un grande fan di Drag Race e lo sono da 10 anni. Sono un fan di quelli un po’ ossessivi, che hanno visto tutte le edizioni di tutti i paesi e anche una quantità indescrivibile di cose intorno alla serie, è una malattia, diciamo… e ogni tanto mi piace guadagnare con le mie malattie. Quando mi hanno proposto questo progetto mi è sembrato perfetto, perché il programma per me ha avuto un grande valore; è un contenitore di intrattenimento che infallibilmente mi mette di buon umore, e nel farlo veicola delle questioni che mi stanno al cuore. È un pacchetto completo.

Che tipo di questioni veicola il programma e quali messaggi manda al pubblico?

Innanzitutto, concordo molto con la tesi degli autori del libro, secondo cui Drag Race è in maniera consapevole e voluta un contenitore ‘camp’ di infiniti input che vengono dalla storia della cultura queer – così la chiamano, dicono queer per includere tutto. Drag Race è una specie di frullatore che integra in una chiave leggera, comunicabile e divertente (nel senso più elementare della parola), una quantità di stimoli provenienti dalla storia della comunità  lgbtqia+ o ‘queer’, come la vogliamo chiamare  Ed è vero; il libro usa l’analisi di Drag Race per creare un compendio rivolto soprattutto ai giovani (altra cosa che mi ha attratto nel libro), e mettendo in prospettiva il continuum spazio-temporale su cui ci troviamo. Cioè chi è venuto prima, chi dopo; perché ci piace il drag, chi è stato pioniere nella lotta per i nostri diritti… Sylvia Rivera Marsha P. Johnson accanto a Sylvester, Hector Xtravaganza e Frank’n’Further.. È un prontuario di storie culturali lgbtqia+ che secondo me fa molto bene, fatto, però, tramite il filtro di Drag Race.

I curatori del libro prendono la Werk Room e una serie di elementi tipici del programma e li scompongono nelle loro parti. A esempio, il capitolo sulla Pit Crew – che sono i valletti muscolosi e boni – è un’analisi dell’estetica omosessuale, quindi dall’underground all’emersione e dalle illustrazioni chiaramente omosessuali, ma non dichiarate, della moda americana di inizio secolo fino ad arrivare a Tom of Finland. Per loro Drag Race è una torta a strati di queste cose, che nel contempo è riuscito a diventare un franchise senza precedenti, perché è una macchina da guerra globale gigantesca. 

'RuPaul e le altre', intervista al curatore e traduttore Matteo Colombo - Gay.it
Gottmik, terza classificata alla tredicesima stagione statunitense di Drag Race

Cosa è cambiato dalla comparsa di Drag Race a oggi? In che contesto si inseriva quando tutto è iniziato?

Drag Race parte nel 2009 in una forma scalcagnatissima, fatto con due lire, male e anche brutto. La prima stagione è imbarazzante, però si migliora in corsa, come molti progetti queer. Inizialmente parla quasi per natura a un pubblico maschio, bianco e gay. Va in onda su LogoTV, che è un canale tematico. Poi cambiano i tempi attorno a Drag Race, arrivano nel programma delle persone portatrici di una sensibilità identitaria nuova, sempre più giovane. Quindi DR che parte un po’ ‘boomer’, arriva ad aprirsi alla comunità lgbtqia+ a tutto tondo.

Tu saprai che il programma è stato contestato dai fan su molte questioni. Inizialmente, c’era un jingle che recitava “Youve Got She-Mail”, un termine dispregiativo per le persone trans*, i fan lo han fatto togliere.

DR è stato da subito visto globalmente, perché era già il periodo del ‘file sharing’ pesante, la gente lo scaricava illegalmente in tutto il mondo (noi lo vedevamo così). Questo pubblico globale ha intercettato dei temi, dall’identità alle nuove sensibilità della comunità lgbtqia+ e di conseguenza il programma ha cominciato a dialogare con essi. Si è fatto criticare, ha accettato le critiche, ha cominciato a integrare concorrenti trans*. Fino a un certo punto il fatto che una donna trans* facesse drag era strano per la loro cultura, quando in realtà tantissime donne trans* passano per il drag come parte della scoperta di sé.

Qualche anno fa è arrivato il primo concorrente transgender maschio, Gottmiktra l’altro pazzesco. Tutto questo si è reso sempre più rilevante, e nel contempo è riuscito a sfondare nel mainstream. Già sei anni fa SNL ha iniziato a fare gli sketch sulle Drag e ha fatto condurre una puntata a RuPaul. Più o meno tutti i paesi in cui è arrivato ha significato uno sdoganamento verso il mainstream. Speriamo che sia lo stesso anche in Italia. 

Causa alcune dichiarazioni un po’ fuorvianti, volevo chiederti, da dove nasce l’arte drag e in che contesto si inserisce?

La vulgata vuole che il drag nasca dal teatro elisabettiano quando le donne non potevano recitare e gli uomini facevano anche parti femminili e trascinavano (in inglese “to drag”) le gonne sul palco. Forme varie di ‘female impersonation’ si ravvisano molto in là nella storia. Parliamo anche delle forme di intrattenimento notturno durante l’Harlem Renaissance (di cui gli scrittori parlano molto nel libro) degli anni ’20. In quei tempi era già molto in voga l’abitudine dei party privati in cui gli uomini si travestivano. Poi nel corso del tempo questo mondo ha subito molte contaminazioni.

Il mondo drag a cui il programma attinge di più, è quello delle ballroom newyorkesi degli anni ’80. Quelli in cui nasce il vogueing, da cui nasce lo shade e tutto un immaginario di gesti e parole. È una cosa che ha sempre fatto parte in qualche modo della nostra cultura.

RuPaul sostiene che le finestre di tolleranza per le persone queer si aprono e si chiudono nel corso della storia con una certa regolarità. Se solo si pensa a cosa accadeva negli anni ’20, al periodo buio tramite cui siamo passati e che aria tira adesso…

Ora sembra che siamo a cavallo, però la storia ci insegna che si può cambiare molto rapidamente.

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La drag queen berlinese Hungry

 Vorrei sapere quando e come ti sei avvicinato al drag.

Mi sono avvicinato al drag tardi, anagraficamente, perché avevo 35 anni e conoscevo a Milano alcuni locali in cui c’erano spettacoli drag. Sapevo cos’era, ma non l’avevo mai preso in considerazione come oggetto culturale complesso. Poi nel 2013 mi sono trasferito a Berlino con un amico, era un mortale inverno berlinese e in qualche modo siamo venuti a sapere che in un baretto chiamato The Club proiettavano le puntate di DR.

Io non avevo mai sentito nominare il programma prima di allora, ma una sera (forse un martedì) siamo andati lì e sono rimasto assolutamente incantato. Innanzitutto dall’energia, perché viste dal vivo le puntate di DR sono un altro tipo di esperienza. Abbiamo cominciato a tornare tutti i martedì perché era troppo eccitante e divertente – era pieno di freak. La cosa ha iniziato ad attecchire rapidamente a Berlino, perché c’era una persona molto in gamba che ha saputo cavalcare il fenomeno. Sto parlando di Pancy, la più famosa drag queen berlinese.

In breve è diventato un appuntamento fisso settimanale per centinaia di persone, ha cambiato locali fino ad arrivare all’SO36, una discoteca punk storica della città. Il programma ha creato una scena drag, soprattutto giovane. A Berlino c’era la generazione storica delle drag, ma da quel momento sono arrivate tutte le ragazzine. Come a esempio Hungry, ora una famosissima drag berlinese che ha lavorato anche con Björk, ma che in quegli anni veniva nei locali con noi a vedere il programma. Intorno a quelle serate è davvero esploso qualcosa. Poi il programma ha fatto il resto, raggiungendo tutti. 

Voglio ribadire una cosa: Drag Race non solo ha portato il drag nel mainstream, ma – e ora uso un termine poco consono – lo ha ‘normalizzato’. E se tu normalizzi il drag costringi il publico mainstream a vedere delle persone che mettono (per mestiere) in discussione il genere. A me sembra una cosa divertente, e non è un caso che spesso, negli Stati Uniti, le proiezioni dal vivo avvengano nei cosiddetti sports bar, dove solitamente vanno gli eteroni a guardare le partite. 

Ormai sono più di 300 le drag ad aver preso parte al programma, quali hai preferito?

Allora, la mia drag preferita adesso non si porta più. È stata ‘canceled’, come si dice, perché ha fatto un po’ di cazzate e si è fatta terra bruciata attorno. Risale alla quarta stagione statunitense e molti, anche se non lo possono più dire, la amano ferocemente perché è quella che ha portato il ‘drag strano’ per la prima volta. Sto parlando di Sharon Needles, che ha scompigliato tutto e ha aperto la strada ad alcuni personaggi interessanti, tra cui Sasha Velour, Crystal Methyd o di recente in UK Charity Kase. Dopo Sharon Needles ho finalmente pensato: “Ok, può esserci anche dell’altro”. Da lì è iniziata la mia ossessione.

Secondo me, la drag più geniale del programma è Katya Zamolodchikova, che veramente è una futurista. Anche Trixie Mattel ha fatto una grandissima carriera, infatti ora esce in Inghilterra talent vocale, sempre prodotto da RuPaul, e lei sarà nel panel dei giudici. 

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Sharon Needles, vincitrice della quarta stagione statunitense di Drag Race

Segui tutte le edizioni e non perdi una stagione, cosa cambia tra le edizioni dei vari paesi e come il format si adatta alla cultura del paese ‘ospitante’?

All’inizio le prime serie franchise, come quella tailandese, si sono prese molta libertà. In quel caso il formato era differente nella struttura. Quando poi il successo è diventato globale, il format è diventato un po’ più rigido. Con delle varianti. In Canada, in assenza di una RuPaul (con relativo carisma), la presenza dei giudici è stata livellata: si dividono i compiti in modo più equo, come in parte avverrà anche in Italia.

L’edizione spagnola invece è molto figa. È stata la prima a essere profondamente adattata sul piano culturale. La vedi ed è spagnola, la Werk Room è puro Almodovar. Da quello che abbiamo visto alla conferenza stampa, l’Italia ha fatto un gran bel lavoro. 

Quali reazioni e quale accoglienza ti aspetti dall’edizione italiana?

Bisogna tener presente una cosa: questo programma non esiste mai solo sul mercato nazionale. L’attesa per l’edizione italiana è molta in tutto il mondo, fattelo dire da uno che si infogna su Reddit e postacci del genere. Un’ora dopo l’uscita del cast dell’edizione italiana c’era un pezzo lunghissimo su Entertainment Weekly con tutte le biografie delle drag queen, giusto per darti la misura. Mi sembra ci sia una grande aspettativa da parte del pubblico mondiale, e da quel che abbiamo visto stamattina non verrà delusa.

Per quanto riguarda l’effetto sul pubblico italiano, trovo che alla fine l’idea di affidare il programma a una produzione intermedia come Ballandi/Discovery sia stata brillante. Molti non si aspettavano che un programma come Drag Race nascesse a Roma, ormai le drag finiscono dritte su Vogue, tutto sembrava dire «Milano». E invece sono stati bravissimi. Sono veri appassionati, e si vede. Mi aspetto che soprattutto quando il programma passerà in chiaro su Real Time, possa fare un certo effetto. A quanto pare ci stanno investendo molto, viste anche le pagine dei quotidiani che hanno acquistato dopo l’affossamento della Zan. Mi piacerebbe che la risonanza nel nostro paese fosse grande. 

 

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