Loredana Bertè ha questa dote, tra le tante. Arriva e spazza via tutto il resto. È appena successo anche questa volta, a Sanremo 2024.
Quasi in sordina, dopo una carrellata di brani più o meno riusciti e più o meno a fuoco, entrando di striscio, senza scendere le scale, Bertè prende a cantare e segna il primo grande spartiacque dell’anno. Il brano, Pazza, è completamente aderente all’artista che è, vicinissimo alla sua voce, al suo vissuto, a quello che è diventata. E l’interpretazione, l’unica rock della serata, purché non precisissima (Loredana sa cantare meglio di così, lo farà nei prossimi giorni), è assolutamente convincente. Lo dice anche il pezzo: è arrivato il tempo dell’amore di sé, del pensiero disarmato, della cura. Basta rabbia, è stata utile, ma ora non è più sufficiente. Serve vivere innamorandosi di sé, perdonandosi e scegliendo di essere sinceri.
Infatti, lei canta leggera, dimentica qualche parola, ma sorride, è a suo agio, apre le braccia e stringe tutti al petto: l’Ariston e noi che guardiamo, giornalisti e ascoltatori. Stringe tutte le Loredana che è stata, la bambina e la dannata, la sposa e la rocker, la pazza – appunto – e la regina. Stringe tutte le cose perse, i dolori che sono arrivati e poi passati, le ferite che invece sono ancora lì, ancora aperte, mai cauterizzate. Stringe i volti che ha avuto, tutte le canzoni che ha cantato, le bestemmie e le maledizioni, anche i sorrisi e le notti con le ossa rotte, i canti rimasti inascoltati e le sere senza luna, i giorni senza dio e senza sole, gli anni senza carezze. Più che una stretta, più che una morsa, è un abbraccio universale, un bacio che va al mondo intero.
Finisce l’esibizione, molto vicina ai suoi Sanremo a cavallo tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila – ricorda quella di Dimmi che mi ami, ma è meno drammatica – e si accende la meritata standing ovation. Siamo pazzə di te, Loredana. Evviva.
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