La Drag Queen e Queer Artist Sasha Velour, amatissima dai cultori del reality statunitense RuPaul’s Drag Race, si è esibita per la prima volta a Milano in uno spettacolo sold out. L’abbiamo incontrata per scoprire il suo mondo fatto di citazioni retrò, costumi teatrali e affermazioni gender-bending.
La lunga coda fuori dalle mura del Club Q21 inizia a farsi notare già due ore prima dello show. Sasha Velour è a Milano per la sua prima esibizione in città e, a testimonianza della grande attesa della sua fanbase, l’evento è andato sold out in pochi giorni. Drag artist “genderfluid”, Sasha è la vincitrice della nona stagione di RuPaul’s Drag Race, consacrata da un’esibizione fiammeggiante sulle note di “So Emotional” di Whitney Houston, divenuta iconica.
Pseudonimo di Alexander Hedges Steinberg (Berkeley, 25 giugno 1987), Sasha non è la classica drag queen statunitense perché l’arte è il cuore pulsante di tutta la sua ricerca iconografica e delle sue performance che mescolano con eclettismo costumi di design, citazioni retrò e queer culture. Al Q21, mentre un fermo immagine con il suo nome domina le videoproiezioni, il dj Stefano Protopapa e le local queens Daphne Bohémien e Lilly Love, insieme alle drag del Klub Kids Uk (Baba Yaga, Neon e Alyssa Van Delle), iniziano a scaldare il pubblico. Poi ecco arrivare Sasha, visibilmente emozionata dalla calorosa accoglienza dei fan e stretta in un outfit a effetto. «Ho voluto proporre un costume di scena che ricordasse le silhouttes classice del passato che ho reso contemporaneo e teatrale con un twist alla Klub Kids». Ci rivela dopo lo show, prima di dedicarsi al meet and greet. La prima performance è una delicata allegoria del concetto di “casa”. Sulle note di “A House is not a Home”, malinconica ballata del 1964 di Dionne Warwick, inizia la lip sync performance proprio come in una puntata di RuPaul’s Drag Race. Sotto il puntuto copricapo indossa una piccola casetta rossa, fulcro concettuale dell’intera esibizione, mantenuta da briglie nere attorno al volto. Il testo della canzone prescelta racconta infatti del senso di appartenenza che si prova quando ci riconosce in una dimensione familiare a tal punto da essere percepita come casa propria. La casa cui Sasha Velour allude in questo caso è il club, luogo simbolo d’aggregazione per la comunità omosessuale, in cui le barriere cadono per l’asciar spazio al concetto di unione nella sua accezione più libera. «I love each one of you» afferma sul finale per rimarcare appunto la bellezza di una folla così coesa ma multiforme perché ricca di singole personalità. «So che potrebbe sembrare troppo popolare utilizzare canzoni che hanno caratterizzato la storia della musica anni ’60 nei gay bars, ma tengo molto a quel periodo storico perché caratterizzato da individui che hanno osato ribellarsi. Con questa performance ho voluto onorare il ricordo di ciò che è stato fatto in passato da coloro che hanno lottato per il rispetto delle diversità» ribadisce Sasha.
La seconda esibizione la vede tornare sul palco in total white, sulle note di “I am what I am”, brano tratto dal musical La cage aux folles originariamente interpretata da Gloria Gaynor nel 1983. La canzone è un’esaltazione della diversità, un vero e proprio inno lgbt portato al successo dalla versione disco della Gaynor appunto, ma sono molti gli artisti che l’hanno inclusa nel proprio repertorio. Il timbro scelto da Sasha Velour è quello, personalissimo, di Shirley Bassey. Il testo, che nella commedia originale è cantato da una drag queen, sottolinea il diritto a essere diversi, inteso come ricchezza e non come handicap. «Le performance drag uniscono tutti noi. Devono legarci davvero e diventare strumento di lotta contro alcune forme di razzismo interne alla gay community. Quello della transphobia, ad esempio, è un problema che non possiamo far finta di non vedere» risponde quando le chiedo quale sia il valore aggiunto di quello che non è un semplice spettacolo d’intrattenimento.
Un’affermazione in particolare mi colpisce durante il suo speech: “Drag is the ultimate form of magic on earth”. Le chiedo quindi di spiegarmi meglio cosa intendesse. «Le mie performance, sono come degli esperimenti magici. A seconda degli ingredienti che si decide di utilizzare si ottiene una pozione in grado di condizionare gli altri. La magia della drag art spinge il pubblico a sperimentare, a porsi degli interrogativi sulla realtà che lo circonda. Ma i temi in discussione in questo caso sono quelli dell’identità di genere, della self-expression, della libertà di poter essere se stessi, al di là di preferenze sessuali, di etnie e background personali». Ma prima di concedersi ai fan un ultimo scambio sugli impegni in corso. «Sono molto orgogliosa del mio progetto editoriale, Velour Magazine, autoprodotto e distribuito in tutto il mondo, incentrato sull’affascinante storia delle drag queens. Inoltre vorrei realizzare una mini serie sugli aspetti economici di questo lavoro. Approfondire costi e strategie di business che ruotano attorno a un mondo iper colorato ed eccentrico».
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