Retata in un bar gay milanese. Senza motivo

Decine di poliziotti e camionette in un noto bar gay di Milano. Venerdì le forze dell'ordine hanno fatto irruzione nel locale, hanno identificato tutti e fatto un appello ad alta voce. Perché?

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4 min. di lettura

Pubblichiamo la segnalazione di un lettore presente al momento dei fatti. Il racconto dettagliato di una serata assurda e di una retata senza un perché.

Ore 2.00. Venerdì 12 gennaio, la tipica  piovosa nottata milanese d’inverno. Siamo in 7. Siamo la compagnia più mista del mondo: tre studenti francesi di 22 anni in Erasmus, un medico di Milano, un ingegnere siciliano e due bellissime ragazze di Verona di 24 anni che studiano a Milano. Qualcuno dei nostri amici è gay: si va all’Lelephant a finire la serata. È la cosa più normale del mondo.

Ma questa è una serata diversa. Lo capisci a cento metri di distanza. Ci sono almeno tre camionette ed un fuoristrada della Polizia di Stato che circondano il locale. L’effetto dei lampeggianti blu che si riflettono sulle vetrine del locale preannuncia atmosfere catastrofiche.
Ce ne andiamo o ci fermiamo lo stesso? Beh, non possiamo allontanarci così.. Potrebbe essere successo qualcosa di terribile al mio migliore amico, che è sempre là.
“Non è successo nulla”, ci garantiscono i Poliziotti. Sono circa 20 agenti in divisa che presidiano le uscite, schierati davanti alle vetrine, proprio là dove di solito mi fermo a fumare mentre finisco il Negroni.
(***)
Cosa ci fanno 20 poliziotti all’Lelephant? Sul momento, davvero, fatico a capirlo. Non c’è stata alcuna rissa. Non cercano spacciatori perché droga non ce n’è mai stata e poi sono senza cani. Non stanno facendo le multe per problemi di scontrini o per i drink dopo le 2.00, altrimenti sarebbero bastati i vigili urbani o la Guardia di Finanza.
Poiché non capisco, chiedo spiegazioni proprio ai Poliziotti intanto che finisco la sigaretta e la mia amica finisce di cerbiattare con quello più carino.

Cominciamo con il chiedere se possiamo entrare: ci rispondono di accomodarci pure se vogliamo, tuttavia il locale a quell’ora dovrebbe essere già chiuso e quindi tanto vale trasferirsi altrove.
Ma cosa è successo? Ci confermano che non è successo nulla. Normali controlli amministrativi: “Oggi qui, domani in qualche altro locale milanese”. Ci spiegano di essere arrivati in tanti perché il locale è grande, contiene almeno duecento persone: temevano reazioni ostili da parte della clientela  (forse pensavano di essere presi a borsettate?!).
I drink che mi sono bevuto cominciano a dare il solito effetto diuretico, così decido di osare: entro con l’idea di andare in bagno. Mi rendo conto che dentro il locale di Forze dell’Ordine non ce ne sono. Ma cosa sono venuti a fare, mi domando?
In bagno mi ritrovo con due dei Poliziotti con i quali stavo chiacchierando fuori. Stanno improvvisando una specie di perquisizione degli stipiti delle porte e degli sciacquoni dei water. Mi concedono comunque di utilizzare il bagno.
Chiedendo a chi era presente, il giorno dopo scopro che la parte inquietante della “retata” era avvenuta un’ora prima del mio arrivo. La Polizia ha circondato il locale, impedendo ai clienti di uscire per poi indentificarli ad uno ad uno; in seguito, a gran voce hanno cominciato a fare l’appello in ordine alfabetico di tutte le persone presenti, in modo che potessero uscire ordinatamente. Mi raccontano che già prima dell’arrivo delle camionette, sarebbero stati presenti nel locale almeno dieci agenti in borghese.

Bilancio dell’operazione: una sola multa, poiché nel locale non era correttamente affisso il cartello con il divieto di fumare. Nessun arresto, niente droga, niente problemi di scontrini o di orari, o altre irregolarità.
Ma a che cavolo poteva servire un’operazione del genere? È tutto il giorno che me lo domando e non trovo risposta.
È tutto il giorno che mi preoccupo fantasticando sull’imbarazzo che avrei provato nell’essere identificato e poi chiamato ad alta voce, davanti ad un sacco di persone che non conosco; o davanti a persone che conosco da dieci anni, ma alle quali non ho mai voluto rivelare il mio cognome. È tutto il giorno che fantastico su cosa potrebbero scrivere domani i giornali milanesi. Mi domando se da domani i miei amici etero saranno ancora così rilassati nell’accompagnarmi all’Lelephant a bere l’aperitivo o a fare serata. Chissà cosa dirà la mamma del mio ragazzo quando saprà che “lo porto” in un posto noto alle cronache per le retate di Polizia.

Mi faccio un sacco di domande stupide e mi rendo conto di sentirmi insicuro, ora più di prima.Pensando e ripensando, infine ho capito a cosa servivano 30 Poliziotti all’Lelephant. A farmi sentire insicuro. A farmi sentire una nullità.
Però, adesso che ho capito perché sto così di male, mi rendo conto che devo vergognarmi un po’ meno di essere gay ed alzare la testa per difendere i miei diritti.
(***)
Lelephant, amato od odiato, è il simbolo della progressiva integrazione dei gay nella società milanese. 10 anni fa l’Lelephant era per tutti il “locale delle lesbiche”; un essere di sesso maschile entrava solo se stava simpatico ai buttafuori. Poi, piano, piano, sono arrivati tutti: prima i gay, poi gli etero (prima le ragazze, quindi i ragazzi). Le pareti del locale sono fatte di vetro trasparente perché nessuno sente il bisogno di nascondersi e vergognarsi di essere lì. Anzi si sta addirittura fuori dal locale. Magari a qualcuno sembrano dettagli banali. Prima che arrivasse l’Lelephant, ad un gay che voleva uscire con gli amici al sabato sera non rimaneva che suonare il citofono del mitico AfterLine ed aspettare che gli aprissero, dopo averlo classificato come persona non “pericolosa”.
Continuerò ad andare nello stesso posto; spero che la prossima volta i Poliziotti saranno altrettanto gentili e rispettosi; spero che non ci sia una prossima volta. Tuttavia temo che sia solo l’inizio di una pericolosa regressione culturale e civile, perciò mi firmo con il solito prudente ma frustrante pseudonimo.

Luca.

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