Da decenni l’Eurovision Song Contest è il festival musicale più inclusivo al mondo, trionfo queer con i suoi costumi, le sue scenografie, le esibizioni kitsch, spesso volutamente eccessive, i temi trattati, l’omosessualità dichiarata dei propri cantanti. Ma il vero punto di svolta c’è stato nel 1998, grazie a Dana International. Nata a Tel Aviv, cantante transgender MtoF, Dana sbarca all’Eurovision nel 1998, con lo scettro di icona gay già ampiamente conquistato. All’edizione britannica di Birmingham Dana viene accompagnata da polemiche e curiosità, presentando il brano Diva. Un’ode alle donne più famose della storia. Afrodite e Cleopatra. Chiaramente camp, come tutte le cose migliori viste all’Eurovision, stravinse quell’edizione.
Fino a quel momento le donne transgender raramente apparivano nei media mainstream. Dana infranse un muro, un tabù, mostrando al mondo una comunità fino a quel momento nascosta, conquistando l’Eurovision. Improvvisamente Dana divenne icona globale di un intero movimento. Leggenda narra che quando Geri Halliwell abbandonò le Spice Girls, Mel C, Mel B, Emma e Victoria chiesero proprio a Dana di prenderne il posto. La sua risposta? «No comment». Nel 2019, con il ritorno dell’Eurovision in Israele, il doveroso omaggio ad un mito nazionale, con baci LGBT in platea e arcobaleno sul palco.
Sedici anni dopo il trionfo di Dana International, la performer drag Conchita Wurst ha conquistato l’Eurovision di Copenhagen, nel 2014, nonostante il tentativo russo di censurarla. Ma è nel 1998, con Diva, che l’Eurovision è entrato prepotentemente nel nuovo millennio.