Il film più chiacchierato dell’anno sembra essere uscito dai primi anni ’90, per come è stato pensato e realizzato dal suo 84enne regista, Ridley Scott. House of Gucci, dal 17 dicembre nelle sale d’Italia con Eagle Pictures, è un mafia-movie all’americana senza mafia al suo interno, chiamato a ricostruire una tragica storia di cronaca nera, qui ridipinta con i colori dell’eccesso, della parodia, dei luoghi comuni. La sceneggiatura di Becky Johnston e Roberto Bentivegna, tratta dall’omonimo libro di Sara Gay Forden, incrocia Storie Maledette e Beautiful, Franca Leosini e Brooke Logan, la prima della Scala e Vacanze di Natale a St. Moritz, Martin Scorsese e Neri Parenti.
Nel 2006 Scott aveva pensato ad Angelina Jolie e a Leonardo DiCaprio negli abiti di Patrizia Reggiani e Maurizio Gucci, ucciso nel 1995 a Milano da due sicari ingaggiati dall’ex moglie, poi condannata a 26 anni di carcere e nel 2016 rilasciata per buona condotta, dopo aver trascorso 18 anni dietro le sbarre. Passati 15 anni da quella prima sceneggiatura, poi cestinata, il regista di Alien e Blade Runner si è affidato a Lady Gaga e ad Adam Driver per i ruoli della Vedova Nera e dell’imprenditore, centrando la scelta di casting.
Perché Stefani Joanne Angelina Germanotta, già nominata agli Oscar come miglior attrice per A Star is Born, è sorprendente. Tralasciando il ridicolo e marcato accento che oscilla tra un russo in vacanza a Riccione e un b-movie qualunque idolatrato da Tarantino, Gaga giganteggia su tutto e tutti in ogni scena in cui appare. La sua Patrizia, così esuberante e sicura di sé, ha più maschere da indossare e ostentare.
Inizialmente arrampicatrice sociale, poi dolce e innamorata compagna, subdola manipolatrice, mammina cara, addolorata donna tradita, infine furia cieca e vendicativa. La popstar è credibile in ogni sua parte, mutando look, aspetto, mimica, espressività, fisicità. La chimica con Adam Driver non è pari a quella strabordante con Bradley Cooper, ma i due attori insieme funzionano a meraviglia, se non fosse per quella ridicola scena di sesso animalesco, in cui Gaga potrebbe tranquillamente urlare “sono un troione, sono un troione, sono un troione“, omaggiando l’indimenticabile Francesca Reggiani di Ricky e Barabba del 1992. Sarebbe stata una straordinaria chiusura del cerchio nei confronti del cinema di genere nazionale, ma era forse chiedere troppo. Driver, dal canto suo, è elegante, posato, infido, orgoglioso, ambizioso. Anche lui, semplicemente perfetto.
Scott si prende tutto il suo tempo per raccontare la storia dei Gucci. Quasi 160 minuti, che si sentono tutti, partendo dal primissimo incontro tra Patrizia e Maurizio, ad un party. Nel momento in cui il promettente avvocato pronuncia il proprio cognome, Gucci, alla Reggiani di Gaga brillano gli occhi. Inizia così un corteggiamento che vede i due rapidamente innamorarsi e suscitare l’ira di Rodolfo Gucci, padre di Maurizio, interpretato da un distinto, impeccabile e composto Jeremy Irons. Schizzi di normalità recitativa, in un film che non conosce freni. Ripudiato dal padre a causa di quella donna ossessionata dal lusso, Maurizio si mette a lavorare tra i camion dell’azienda di famiglia della neo moglie, ma Patrizia ha ben altro in mente. Grazie ad Aldo Gucci, zio di suo marito nonché fratello di Rodolfo, interpretato da un travolgente Al Pacino, i due riescono a rientrare dalla finestra dell’azienda, scatenando un terremoto che coinvolgerà anche Paolo Gucci, eccentrico cugino interpretato da un Jared Leto irriconoscibile. Un perfetto idiota, deriso da chiunque, emblema plastico dell’esagerazione recitativa e di scrittura, calamita di risate involontarie (?) al cospetto di una trama che si sviluppa a fatica, che vuole raccontare troppo.
Il corteggiamento, l’innamoramento, il matrimonio, la nascita di una famiglia (le figlie sono due e non una, c’è anche Allegra oltre Alessandra), l’azienda in crisi, le condanne fiscali, il decadimento, la rinascita con il texano Tom Ford (il vero Tom qui stronca il film ndr), il tradimento con Paola Franchi, il divorzio con assegno alimentare annuo da 1.500.000 dollari, la vendetta che fa rima con omicidio (nella realtà avvenuto a Milano, e non a Roma nel quartiere Coppedè), lo sbrigativo processo (2 minuti appena, il tempo della sentenza).
Nel mezzo abiti e gioielli, macchinoni e appartamenti da sogno, canzoni italiane a rotta di collo e celebri pezzi internazionali. Una telenovela dal budget stellare che oscilla continuamente tra il ridicolo e l’esilarante, il brutto e il fascinoso, l’esageratamente camp e il tragicomico, il melodramma e l’operetta.
Girato tra Milano, Roma, Firenze, Como e Gressoney-Saint-Jean, House of Gucci è completamente fuori da ogni schema e soprattutto tanto noioso, perché 160 minuti sono uno sproposito se non ti chiami Martin Scorsese e non hai Thelma Schoonmaker al montaggio.
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Ridley Scott aveva tra le mani un materiale incredibile, una storia clamorosa e un cast invidiabile (anche Salma Hayek è perfetta nei panni della sensitiva Pina Auriemma), ma non è riuscito a gestire tanta ricchezza, finendo per accartocciarsi su una sceneggiatura che, così esposta, avrebbe meritato una serie tv ad hoc, e non un lungomentraggio.
C’era da fare scelte precise su cosa raccontare, su chi soffermarsi, su cosa tagliare, e a cosa dedicare più spazio, ma alla fine il regista ha buttato tutto in un gigantesco calderone, cuocendo a fuoco lento intrighi, crimini e misfatti.
Audace e indigeribile, divertente ma non troppo, il più delle volte incontrollato, House of Gucci risulta assurdo sin nella discutibile scelta di far recitare tutti i protagonisti in inglese con accento (pseudo) italiano, interpretando personaggi italiani in Italia, da intervallare con parole nostrane ad effetto come “sciao”, “ammore”, “espresso” e “che cazzo succede”, mentre Pavarotti si alterna a Pino Donaggio, Caterina Caselli, Alice e Bruno Lauzi, da affiancare a Donna Summer, Eurythmics, George Michael, Blondie, David Bowie. Un juke-box in stile cinepanettone stracolmo di generi, arpeggi e gorgheggi in cui il suo direttore d’orchestra ha giocato a sbizzarrirsi, mollando gli ormeggi per tutta la durata della produzione. Ciò che ne rimane è un film divisivo, che farà parlare di sé chissà quanto ancora, strappando nomination tanto ai Razzie quanto agli Oscar, perché incapace di stabilizzarsi su una critica ferma, oscillando come un relitto tra opinioni estreme, in balia di una marea pronta a montare, proiezione dopo proiezione. Ma con un’unica certezza. Un’ipnotica sirena chiamata Lady Gaga, tre anni dopo A Star is Born, nata definitivamente attrice.
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