In Streets of Philadelphia, Bruce Springsteen cantava il difficile percorso di un uomo ferito e ripudiato mentre si aggira senza sosta per le strade della città, dove nessuno voleva aiutarlo e attorno a sé “[he] heard voices of friends vanished and gone” (“sentiva le voci di amici svaniti e andati”). Era questa la condizione con cui migliaia di persone dovevano vivere durante l’aggravarsi dell’epidemia dell’AIDS: abbandono da parte delle istituzioni, solitudine e la certezza di essere condannati.
Robert Gober, nato nel 1954 e attivo a New York in quel periodo, visse e sopravvisse quegli anni, impotente di fronte al silenzio del governo e agli attacchi della religione, mentre attorno a lui a migliaia cadevano come foglie sotto l’impeto della malattia.
Le esigenze psicologiche che il dolore e il trauma dell’esperienza domandavano, spinsero l’artista alla creazione di forme tanto semplici quanto inquietanti che mescolano autobiografia a storia sociale, inconscio personale a inconscio collettivo. Infatti, i suoi lavori sono per la maggior parte meticolose ricreazioni di oggetti comuni, con una predilezione per la sfera igienica e famigliare. Tuttavia, sebbene sembrino ciò che il nostro cervello ci dice che siano, qualcosa non va: sono disfunzionali, sono violate, sono svuotate della vita di cui godevano prima che una forza sregolatrice le travolgesse.
Pensiamo ad Untitled del 1984: la forma è quella di un sink – un lavabo (ispirato ai lavabi che vedeva da piccolo alla casa dei nonni e nella cucina della madre), ma a rimanere sono la sua struttura e i due fori dei rubinetti: tutto ciò che connota un lavabo manca. In questo senso, l’opera di Robert Gober va letta non in base a ciò che c’è, ma a ciò che dietro giace.
Se inserito nel contesto dell’AIDS, il riferimento a un’igiene impedita, alla mancanza di acqua e di ciò che le permetterebbe di scorrere sottolinea l’irreversibilità e l’impossibilità di lavare o grattar via una malattia che, una volta contratta, era ormai troppo tardi.
Allo stesso tempo, il fatto che sia proprio un lavabo ad essere scelto dall’artista americano come simbolo di un ragazzo gay deceduto a causa dell’AIDS ci riporta a uno dei luoghi più in uso all’epoca per fare sesso anonimo e occasionale – uno spazio che ben presto divenne uno dei centri di contaminazione più famigerati: il bagno pubblico.
Il riferimento si fa più evidente in Three Urinals del 1988, dove non sono le mani, ma l’organo maschile a fare da protagonista.
Gli orinatoi, così vicini, spingono chi li osserva a rendersi sia partecipanti che voyeurs passivi di un incontro che è già avvenuto. Come amici e familiari visitano la tomba di un defunto, così i visitatori sparsi per il mondo fanno visita a queste opere, rendendo giustizia, consciamente o inconsciamente, a un lutto che ha mancato di arrivare per anni.
Tenendo a mente quale sia il fil rouge che lega la maggior parte dei suoi lavori, anche altre opere assumono un significato più grave e traumatico. E’ questo il caso di Plywood del 1987, costituito da un singolo pannello di compensato fatto a mano, la cui immagine banale e ovvia, si impone come monito della riproducibilità e non-esclusività di ogni singolo uomo.
In Untitled (Bed) del 1986, è invece la cruda e impeccabile riproduzione di un letto a farci chiedere quale storia ci sia dietro, chi ci dormiva e cosa, soprattutto, gli sia successo.
Tuttavia, per quanto intrisi di significato possano essere, il senso di pacatezza formale che questi lavori emanano alla vista assume in altri casi un carattere morfico. Nel titolo, nelle forme, negli incroci… le opere si deformano e si antropomorfizzano, come i protagonisti di un sogno inquieto prodotto da una mente in disperata ricerca di un senso di fronte al trauma dell’AIDS.
L’aggiunta di arti e di forme antropomorfe non avvenne fino al 1989, quando la situazione sembrava solo che peggiorare. Fino a quel momento, gli oggetti erano stati spogliati di ogni connotazione vitale o funzionante, permanendo comunque nella loro natura di oggetti, per quanto carichi di significato. Col progredire della malattia, il trauma aumentò e di pari passo anche la necessità di mostrare più esplicitamente la verità viscerale che dietro quelle opere si celava.
In questo senso, è esemplare Untitled Leg degli anni 1989-90 – l’esatta riproduzione in cera e peli di una gamba umana.
E’ come se l’impeto della realtà, aggravandosi, non potesse più essere filtrato. Certamente di metafora si tratta ma non è più astratta e astrusa: lo stesso uso della cera sbiancata, più esiziale, si riallaccia a questo desiderio di rendicontazione della realtà. E’ emblematico in questo senso il titolo di una mostra a lui dedicata nel 2014 al MoMA di New York: “The Heart is not a Metaphor” (“Il cuore non è una metafora”), come a volerci ricordare la sua importanza di organo necessario alla vita, prima che di figura poetica.
Ma cos’è successo al corpo che era attaccato a quella gamba? Il muro gli è stato costruito sopra forse, dimenticando di coprirne un lembo? O gli è crollato addosso? Le radici di quest’opera poggiano le basi in una storia che la madre infermiera gli raccontò da piccolo – una storia che coinvolgeva l’amputazione della gamba di un paziente.
Forse da bambino vi rimuginò spesso sopra, sentendosene ammaliato e spaventato, ma attraverso la lente degli eventi che si verificarono nella sua vita, quella gamba è diventata qualcosa di più di una semplice “storiella”: è diventata simbolo e rappresentazione concreta di una malattia.
Partendo dalla cruda realtà di questi lembi inerti, Robert Gober la arricchisce di significato ripercorrendo il decorso della malattia, dalle cause agli effetti. In Untitled degli anni 1991-93, ad esempio, le gambe sono ricoperte di fori di scolo.
Per coloro che non sono famigliari con l’AIDS, uno dei sintomi più visibili è la comparsa del cosiddetto sarcoma di kaposi, che si manifesta tramite macchie dal rosso al violastro.
Pare chiaro quindi l’intento dell’artista: riallacciandosi al motivo del lavabo, Robert Gober ne usa questa frazione per ritrarre le conseguenze fisiche della malattia, forse rimandandoci anche all’idea di orifizio, ma non solo: osservando attentamente attraverso i pertugi, possiamo intravedere come la malattia abbia letteralmente svuotato il corpo affitto.
In Untitled del 1991, invece, la situazione è opposta: non sono fori, ma escrescenze a candela a crescere sulle gambe.
Se da un lato la base pelosa su cui poggiano ci rimanda a forme falliche, dall’altro non possiamo far a meno di pensare alla sfera religiosa. Nella religione cattolica accendere una candela è sinonimo di luce e di preghiera, ma quelle di Robert Gober sono intatte. Sono presenti, certo, ma nessuno le accese.
Lo stesso Ronald Reagan, allora presidente degli Stati Uniti, non nominò la malattia pubblicamente prima del 1985. In questo senso, sono il silenzio delle istituzioni e l’avversione del mondo religioso a “infestare” il corpo – in questo caso le gambe – di centinaia di migliaia di malati.
Siamo lontani quindi dal quel canto d’amore di cui Félix Gonzalez-Torres si era fatto musico: la poesia, in Robert Gober, lascia spazio alla prosa – alla cruda realtà fatta di uomini, di decisioni non prese e di una malattia trasformata in capro espiatorio. E’ forse il fatto che Gober non fu mai toccato direttamente dall’AIDS il motivo di base per cui le sue opere sono così crude e incalzanti. Non c’è rassegnazione. Quei corpi tranciati, quegli oggetti sterili e spesso antropo-meccanici sono il frutto di un incubo ad occhi aperti vissuto da un uomo che non ha potuto niente e nonostante tutto, è sopravvissuto.
© Riproduzione Riservata
Per fortuna che c’e’ qualcuno parla anche di Robert Gober su questo sito! Ottimo articolo!