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Perché guardate i film? Perché guardate le serie tv, o in generale delle immagini in movimento sullo schermo che cercano – con risultati più o meno convincenti- di riprodurre o raccontare la realtà in ogni sua forma?
Io, ad esempio, li guardo per capirmi meglio: un bel film (qualsiasi cosa significhi “bel film”) può dar voce a pensieri indicibili, può spiegarmi come sto, dirmi che tutto quello che provo è normale, valido, e che la solitudine è qualcosa di tutt* – di chi è dentro e fuori lo schermo.
La prima volta che ho visto una storia gay al cinema è stato nel 2012: era un piccolo film indipendente intitolato “Weekend”, diretto da Andrew Haigh. Racconta la storia di due ragazzi che si incontrano in discoteca e passano insieme l’intero fine settimana tra sesso, confidenze, e un addio in stazione più devastante del previsto. Al tempo a malapena sapevo dove si trovasse il perineo ma “Weekend” ha sbloccato qualcosa dentro di me, tanto da confidare a mamma che potrebbero (all’epoca sempre in condizionale, ancora col beneficio del dubbio) piacermi anche i ragazzi e scaricarmi un’app di nome Grindr.
Fu l’ulteriore conferma che quello che vedevo sullo schermo aveva un potere, rendeva possibili dei mondi che fino ad allora potevo solo dipingere attraverso la visione distorta di qualcun altro. “Weekend” fu uno dei pochi casi in cui due uomini gay non venivano relegati a ruoli secondari o macchiette occasionali, ma diventavano persone reali e riconoscibili. Rispetto al 2012 abbiamo sempre più rappresentazione queer, al cinema e ancor più in televisione, eppure ancora oggi vederci sullo schermo ci stupisce. L’industria cinematografica e televisiva vuole raccontare le nostre storie ma solo a determinate condizioni, attraverso un’unica lente che sembra non conoscere possibili alternative. Chiariamoci, non intendo dire che non abbiamo avuto dei grandissimi film sul tema, ma salvo poche eccezioni, sembra che non possiamo scrollarci di dosso alcuni luoghi comuni.
Ecco quattro cliché di cui vorrei fare a meno entro il 2022:
La morte
Tutt* muoiono. Ma le persone queer un po’ di più, nella vita e ancora di più al cinema. Prestate attenzione a quanti film con persone LGBTQIA+ avete visto e che fine fanno: ambientata probabilmente nell’epoca del proibizionismo, se c’è una storia d’amore, state più che certi che un* dei due crepa a venti minuti dai titoli di coda, appena in tempo per strappare le lacrime a tutta la platea. Il cinema ama ucciderci, gonfiarci di botte, umiliarci, ricordare a chi guarda che soffriamo parecchio. Protetto dalla sicurezza del grande schermo e giustificato dal potere della finzione, il pubblico può interessarsi alle nostre storie a patto che venga ripagato con la solita narrazione che ci ha sempre contraddistinto: tragica e violenta. Narrare la parte meno bella è importante, ma sappiate che non tutte le persone queer vengono ammazzate di botte o sono state giustiziate nel XIX secolo. A volte, vivaddio, abbiamo anche una vita serena e un lieto fine.
I gay
Nonostante il tragico epilogo, in tutta la comunità LGBTQIA+ chi se la passa meglio sul grande schermo è sicuramente la grande G. Uomini che amano altri uomini, ma pur sempre uomini e quindi con un posto d’onore in società, anche quando discriminati. E le storie delle donne, delle persone trans e non binarie? Asessuali? Bisessuali? Tutto il resto della community? Ridotto ad una serie di lettere che non riusciamo a pronunciare, figuriamoci raccontare. Tua madre non avrà mai sentito parlare di “Laurence Anyways”, ma sicuramente di “Call Me By Your Name”, perché la storia d’amore tra due uomini è sempre più riconoscibile, familiare e rassicurante per il grande pubblico. Se le donne lesbiche sollecitano le fantasie del pubblico maschile o un personaggio trans destabilizza troppo la visione, gli uomini gay rimangono l’esca più facile per attrarre persone in sala senza infastidirle troppo, ricordare la coppia di amici gay che conoscono e perdersi per strada tutto il resto.
L’ipersessualizzazione
Se sullo schermo siamo tutti uomini gay, sicuramente saremo anche dei modelli bonazzi pazzeschi. Al cinema e nelle serie tv siamo sempre boni come il pane e dei predatori sessuali. Siamo anche bianchi, indiscutibilmente abili, e le nostre scopate nei film appaiono spettacolari, coreografatissime, impeccabili. Non c’è spazio per imbarazzo, errore o imperfezione. I nostri corpi sono al centro della scena, ma sempre oggetto e mai soggetto. Gli stereotipi che perpetuiamo nella vita reale trovano benzina nei media: è così che il giovane twink, delicato, un po’ effemminato, e senza un pelo in corpo, sarà probabilmente il passivo nelle mani dall’attivo maschio alfa, bello e forte come solo un maschio etero sa fare (e difatti tre volte su quattro a recitare è proprio un uomo etero). In questo modo i ruoli di coppia non subiranno nessuno squilibrio e il pubblico cishet (cisgender + heterosexual ndr) si sentirà al sicuro, potendo tornare a casa senza chiedersi chi era il maschio e chi la femmina.
Il coming out
Le storie LGBTQIA+ sul grande schermo sono pervase dal disagio: disagio di esprimersi, disagio di dire chi siamo, disagio di stare al mondo. Il topos della doppia vita, il segreto inconfessabile, dover dichiarare chi si è alla propria famiglia. Lo stesso pubblico queer non può fare a meno di appassionarsi al coming out del personaggio, perché è qualcosa che prima o dopo ci ha riguardato sul personale. Oltre che uno step fondamentale nella nostra storia di formazione, il coming out è anche un ingrediente perfetto per il climax di una storia e tutto girerà in funzione di quella grande dichiarazione. Il coming out che prima che autoaffermazione, nei film appare come un permesso di soggiorno. È una confessione, sperando nella benevolenza delle persone che ami. Una volta che la dichiarazione è avvenuta e ci accorgiamo che ci amano esattamente come prima, non ci occorre più nient’altro perché un personaggio queer sembra vivere in funzione solo di questo. Il problema dei coming out nei film è che ci si ferma sempre lì. Viviamo sullo schermo in funzione dell’essere queer, e tutte le nostre complesse, stratificate, e variopinte identità possono essere solo presunte e mai davvero esplorate.
Cosa potremmo diventare quando non siamo a disagio? Vorrei vederci irreverenti, meschini, vulnerabili e spaventosi prima che spaventati. Vorrei le storie di supereroi non binari che acquisiscono tutti i poter dell’universo, lesbiche serial killer che uccidono le loro amanti, principesse trans che si salvano da sole, avvocati pansessuali che vincono la causa. Vorrei vederci complessi, stratificati, e multiformi. Perché se la nostra rappresentazione resta sempre la stessa, potremmo abituarci a non vedere più nient’altro.