Prima di vederlo grande performer sul palco dell’Ariston in quei Brividi scolpiti insieme a Mahmood, avevamo già parlato delle mutande di Blanco.
Ieri a Padova, nel primo dei suoi 34 concerti già tutti sold out che lo porteranno domani a Milano, in un tour che si chiuderà il 17 Settembre – sempre a Milano, all’Ippodromo, Blanco ha sfoggiato un reggiseno nero sul proprio corpo stortignaccolo, tatuato e brufoloso.
Il reggiseno di Blanco è post ideologico. Come è ovvio, siamo lontani anni luce dai corsetti che strizzavano le forme delle procaci donne anni ’50 e che hanno ispirato e ispirano stuoli di stilisti di ieri e di oggi – avete presente quell’Italietta da cartolina, sofieloren e mandolino: quella. Ciao amore ciao, addio.
Con il reggiseno di Blanco siamo lontani anche dalla fluidità debordante, spremuta e strizzata anch’essa, e già abusata, a cui tutti i creativi del contemporaneo sembrano dover o voler pagare pegno – non sia mai un maschio con un reggipetto e basta: deve varcare le soglie da un genere all’altro in almeno sette punti cardinali dell’universo infinitesimale del non binarismo (di genere). A me pare che Blanco accarezzi una provocazione scomoda: con la sua parecchio stronza faccia da Joker, Blanco ci vomita addosso le ombre nerissime e bidimensionali dei nuovi conformismi identitari.
Ma torniamo a capezzoli pelosi e reggiseno. Se volessimo ripristinare un’etichetta novecentesca, potremmo dire che quello di Blanco è un reggiseno punk, ma ecco che subito, davanti a una platea di gente di tutte le età presente al concerto di Padova – bimbi, madri, padri, cugini, sposi, amanti e nonni – la parola punk diventa struggentemente inadeguata.
Il reggiseno di Blanco ha le coppe polpose di una gratuità senza indugi. Indossare quel reggiseno è per Blanco un gesto che non ha radici e non racconta altro che una disinibizione scavallante, uno scacco matto alle argomentazioni più o meno esistenti di presunte teorie di genere. È così privo di provocazione ed è così profondamente disinibito – senza inibizioni – da non prestare il fianco neanche alle eventualmente arrabbiate accuse di appropriazione culturale.
Qualcuno dirà – comprensibilmente – che tutto viene infine banalizzato. Ed è proprio così. Ma a questi ultimi, a coloro che covano il sospetto che le proprie battaglie di affermazione di genere siano da Blanco ridotte a non-sense da palcoscenico, lo stesso Blanco risponde con la magnifica narrazione nichilista dei propri testi disperati e rabbiosi, quelli sì covati sotto i capezzoli pelosi.
E non è del resto mio compito difendere Blanco da possibili accuse di banalizzare la queerness: è che Blanco è già ben lontanamente oltre l’idea di identità statica. Non si ferma un attimo, e nel suo correre, Blanco racconta con l’efficacia degli artisti il divenire eterno di queste nuove meravigliose creature umane non collocabili.
Il reggiseno di Blanco è un gesto queer, ma non ha nulla di queer intorno e probabilmente nessuna consapevolezza. È la fuga in tutte le direzioni di una generazione, siddetta Z, che non ha tempo di questionare su superamenti del binarismo di genere, perché ciò che davvero l’attrae, la frammenta, e forse persino la dilania, è il caotico sgretolamento di ogni binarismo, di qualunque separazione in due blocchi.
Blanco ha chiesto ai fan di indossare bianco e nero durante i suoi concerti, ma nel reggiseno di Blanco c’è la totale negazione dello schema binario tout court, è anzi la scomparsa del bianco o nero, del giusto o sbagliato e – persino – del legittimo o illegittimo. Prossima tappa, l’illegalità.
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