Blanco non è la tua tipica popstar.
Vedi le sue gigantografie tappezzate per le strade della città e con gli altri maschi del momento c’entra tutto e niente: sterno affossato, zero machismo, acne gloriosamente in vista, sempre in mutande.
Le mutande di Blanco sono l’antitesi di quelle di Marky Mark nel 1992: non bramano la tua libido e al contempo non puoi togliergli gli occhi di dosso, catturando uno sguardo che, però, ha poco a che vedere con il sex appeal.
Blanco si spoglia ma sta correndo troppo veloce per aspettare la tua approvazione: è un corpo crudo e irrequieto, una canaglia che salta, rotola, si struscia addosso a tutto, sporco di erba e terra, scrollato da ogni sovrastruttura.
Ha l’energia del teppista, che non romanticizza gang e pistole, ma ti fa una pernacchia e scappa nudo nei boschi. Lo faceva già quando era solo un diciassettenne in provincia di Brescia.
Cresciuto a Calvagese della Riviera, paesino di tremila anime, circondato da spazi aperti e accompagnato dalla musica di Edoardo Vianello e Gino Paoli.
Cantautorato italiano e natura sono parte integrante di chi è Blanco oggi: la sua musica è pop che incontra rap che incontra punk, così disordinata e euforica da sfuggire alla rigidità di un’unica definizione.
All’apice della notorietà, Blanco è ancora un Cupido selvaggio che ha bisogno di sparire nel silenzio, abbracciare gli alberi, liberare quello che è confinato nella propria testa e farlo sentire a tutto il corpo.
Un corpo che come la sua musica, non può essere una cosa sola.
Canta di storie finite e amori irrequieti, ma le ragazze non sono mai oggetto sessuale o denigrate in funzione di una rima a effetto: i suoi testi sono odi frenetiche e vulnerabilissime, dei piccoli coming of age senza regole o la pretesa di impartirci una morale.
Come nelle canzoni, la sua immagine è libera di paternalismo e perfetto antidoto al rapper maschio alfa che vuole spiegarci la lotta di classe.
In questo senso, Blanco è un trionfo per le nuove generazioni e un punto di svolta per le precedenti: mette da parte la critica sociale sterile (specialmente quando proviene da un uomo etero cis bianco e abile) – sfuggendo allo stereotipo della gara a chi ce l’ha più lungo e discostandosi dalla tossicità del male gaze – per celebrare il disordine della crescita, con tutta la brutalità e ribellione del caso.
Mi piace vedere Blanco in mutande perché mi fa sentire in pace: lo guardo fare smorfie davanti la telecamera senza la minima preoccupazione di accomodare l’obiettivo, tirando fuori una lingua che vive di vita propria e gridando come un ossesso.
Mi sprona a conservare un’ irreverenza giovanile che la società, soprattutto all’alba dei trent’anni, mi invita a contenere e addomesticare.
Mi dice che posso spogliarmi anche senza i muscoli di Mahmood, restarmene ingobbito, spigoloso, libero dall’urgenza di apparire bello.
A diciannove anni li avrei voluti i suoi occhi, per vedere chi sono davvero.
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