La Chiesa di Dio in Cristo è una comunità cristiana di persone nere, nata in seno alla tradizione pentecostale. È stata fondata nel 1907 da Charles Harrison Mason, un vescovo del Tennessee, e conta a oggi oltre sei milioni di adeptə in tutto il mondo (anche se, secondo alcune fonti, questo numero andrebbe almeno duplicato). Sei milioni di persone (o forse almeno dodici), quasi tutte nere, convinte di poter scacciare il demonio attraverso l’esercizio della glossolalia e l’accoglienza dello Spirito Santo nella propria vita, nel proprio corpo. Spesso, quando si incontrano, lə fedelə si sdraiano sul pavimento, si coprono dalla testa ai piedi con un lenzuolo bianco e pregano, cercano una connessione con dio e con sé stessə, coltivano la gioia di abitare uno spazio unico, sacro. La Chiesa di Dio in Cristo, infatti, è da sempre un safe space per la comunità nera d’America: tutto ciò che afferisce a essa, tutto ciò che la riguarda, dalla manutenzione degli edifici alla cura tipografica dei materiali espositivi è (era, soprattutto) di competenza delle persone nere. Si tratta, dunque, si è sempre trattato, di un esempio di resistenza, di una pratica utile a mettere alla prova la propria libertà in uno spazio completamente protetto. E così, solo così, immaginare un altro mondo, un mondo che disconosce le prevaricazioni razziali, per esempio.
Willie Hersey ha a lungo prestato servizio alla Chiesa di Dio in Cristo in qualità di vicario. Non che questo fosse il suo lavoro; Willie Hersey era capo di uno scalo ferroviario alla Union Pacific Railroad. Quando non lavorava, però, andava in chiesa. Era una questione di fede, certo, ma era anche una faccenda politica, un tema legato al concetto di rivendicazione e di orgoglio. Wille Hersey era un militante, lottava per la liberazione dei suoi compagni neri, delle sue compagne nere, di sé stesso e della sua famiglia. Era nato negli anni Cinquanta, nel Midwest, era cresciuto a Chicago e nelle periferie a sud della città. Sapeva, e bene, cosa significasse essere ostracizzato, discriminato, in qualche modo schiavizzato perché nero. Sapeva bene, come sanno sempre bene le persone appartenenti alle frange più svantaggiate della nostra società, che «essere neri [ma anche essere donne, queer, latinx, persone con disabilità e lavoratorə] significa doversi dare da fare dieci volte di più». E non per sbancare il lunario: per sopravvivere. Per farcela, in qualche modo, qualsiasi cosa voglia dire.
E per farcela, Hersey non si è mai fermato. Quel «ragazzone», quella «montagna d’uomo» – come lo chiamavano tutti, fuori e dentro casa – quel figlio di dio devoto e sicuro, non ha mai riposato, neanche la domenica. Non poteva riposare, doveva lavorare, sempre. Trascurare tutto per guadagnare qualche soldo, e per lottare. Così, la ferrovia e gli impegni, la chiesa, gli affanni, il coro e il razzismo hanno preso ogni istante del suo tempo, ogni scampolo del suo corpo. Willie Hersey è morto sotto il peso del diabete, dello stress e della scarsa cura. Il suo corpo non ha sopportato la scarsa inclinazione al limite, l’ansia delle aspettative.
Amava cantare e ballare, amava il cinema e sognava di diventare un regista, eppure il lavoro indefesso ha invaso il suo Spazio Onirico, lo ha colonizzato. D’altronde, come possiamo sognare, se siamo in servizio ventiquattro ore su ventiquattro? Come possiamo prenderci cura di noi stessi e degli altri, se lavoriamo sempre?
La storia di Willie Hersey è stata recentemente raccontata dalla figlia, Tricia, in un saggio dal titolo già emblematico, Rest is resistance, che in Italia è stato pubblicato da Blu Atlantide nell’efficace traduzione di Olimpia Ellero (Riposare è resistere. Un manifesto). Tricia Hersey è un’artista, una poeta e una teologa. Dopo un percorso accademico travagliato ed estenuante che l’ha condotta sull’orlo di un burn out potenzialmente irreversibile, Hersey ha fondato il Nap Ministry – il Ministero del Pisolino, per dirlo in italiano – vale a dire una comunità che studia e promuove il riposo come forma di resistenza e di lotta civile, offrendo – similmente alla Chiesa di Dio in Cristo – spazi comunitari ed esperienze di riposo collettivo. Questo libro, allora, racconta una presa di coscienza e il consolidarsi di una consapevolezza poi trasformata in pensiero alternativo, in un gesto che va in controtendenza. Mentre il mondo corre verso la distruzione capitalistica, che è per forza di cose razzista, suprematista, abilista, sciovinista e queerfobica, il Nap Ministry chiede che ci venga concessa la possibilità di fermarci un attimo, e riposare, semplicemente esistere. Limitarsi a esistere per opporsi alla dittatura del fare: non siamo quello che facciamo, siamo quello che siamo. Siamo e basta, esistiamo, a prescindere da tutto.
Ma questo libro, che ordina di essere letto con il fiato lungo, lentamente, prima e dopo la pennichella, ha un che anche del memoir, perché, come si è visto, Hersey per elaborare la sua tesi torna alla sua storia famigliare. Non è stato soltanto il padre ad avere consegnato la sua vita nelle mani del lavoro, ma è l’intera famiglia ad appartenere a una lunga, lunghissima tradizione di sfinimento. La nonna materna di Tricia Hersey, Ora Caston, non potendo permettersi un vero e proprio momento di riposo durante il giorno, chiudeva spesso gli occhi nella speranza di trovare un po’ di pace – solo un po’ – e di connettersi con sé stessa. «Chiudere occhio – diceva – non vuol dire per forza dormire. Sto riposando gli occhi e cercando di sentire»: una frase, questa, che – sono certo – la maggior parte di noi ha sentito pronunciare almeno una volta da nonne e madri, da padri e nonni. «Non dormo, ascolto quello che mi dice il Signore, e cerco di resistere alla Bestia». La Bestia è il sonno, l’ozio, la tentazione del demonio. Bisogna resistergli, bisogna imparare a non cedere, stare sempre all’erta. Come faceva, come ha sempre fatto, anche Rhodie, madre di Ora Caston, dunque bisnonna di Tricia Hersey, che stava sveglia fino a notte fonda, nella sua fattoria in Mississipi, seduta su una sedia, con una pistola nella tasca del grembiule: era un gesto di ribellione al Ku Klux Klan. Era pronta a tutto, Rhodie. Era sempre pronta a tutto, la comunità nera. Per questo non dormiva, per questo non poteva dormire. Il manifesto di Hersey, allora, vuole mettere fine a questa tradizione. Vuole essere un’interruzione, rompere la catena. È un’interruzione, e una preghiera. Anche, e soprattutto direi, un dispositivo immaginifico: chiede di fermarsi, perché fermarsi significa immaginare, e immaginare è il gesto che precede, e anzi che partorisce, l‘esercizio politico rivoluzionario. Come si può fare politica se non si immagina un mondo diverso? Come si fa a costruire il futuro, se un futuro non può essere immaginato, se mancano gli strumenti per l’immaginazione, se manca il cronotopo dell’immaginazione?
Al momento, per moltə, lo spazio-tempo del riposo e dell’immaginazione, infatti, non è che una chimera, un miraggio lontano. È un’arma, questa, che è stretta stretta nelle mani del capitalismo, che ci vuole stanchə ed annebbiatə come zombie. Più siamo stanchə, più siamo annebbiatə, più saremo incapaci di ricavarci il tempo e lo spazio utili al riposo, al sonno e al sogno. Se lo facessimo, se riposassimo, prospereremmo, immagineremmo finalmente un mondo diverso, un mondo che ci sembrerebbe subito irrinunciabile. Smascheremmo, così, l’inganno del superlavoro.
Un concetto molto simile è espresso anche da Biancamaria Furci nella prefazione a Manifesto pisolini, un pamphlet di Virginia Cafaro – pubblicato dalla casa editrice femminista Le Plurali – che riprende e prosegue il discorso di Hersey. Furci, a questo proposito, scrive:
«Forse siamo stanche perché è tremendamente opportuno che la gente sia impegnata a sopravvivere da non avere il tempo per rendersi conto delle cose che le accadono intorno, per guardare le società in cui vive, per arrivare a chiedersi se certe cose siano o meno giuste e possano essere diverse (ma anche solo per poterle immaginare diverse, ma anche solo per poter immaginare).»
La stanchezza – aggiunge – questa stanchezza irrisolvibile non è che il risultato di un trauma sociale, generazionale, sistemico. Un trauma di classe. E prende le mosse proprio da qui, dall’ epifania del trauma, tutto il testo di Cafaro, che analizza la storia del nostro esaurimento attraverso le lenti più efficaci: quella di classe, appunto, e quella femminista. Il diritto al riposo – ché di diritto si tratta – è un tema socialista, come si può immaginare, e anche femminista. La questione è stata problematizzata già da Simone De Beauvoir e, in tempi più recenti, da Silvia Federici. Per la maggior parte delle donne, in tutto il mondo, il lavoro domestico vale, a tutti gli effetti, come seconda occupazione e rosicchia minuti (molti, troppi) da quello che dovrebbe essere il tempo del sollazzo, del riposo, tradendo l’antico slogan sindacale «otto ore di lavoro, otto ore di svago, otto ore di sonno». Uno sforzo, quello delle mansioni casalinghe, sisifico e non retribuito, che acuisce il carico mentale delle donne, confermando quanto espresso già da Hersey: sono le soggettività marginalizzate ad accusare i colpi più efferati del superlavoro. Sono soprattutto le donne, direi, a svolgere con maggiore frequenza il lavoro di cura. Questo, quando è retribuito – come nel caso dell’assistenza domestica o del caregiving – è sottopagato, non sistematizzato e invisibile.
Attingendo anche alla sua esperienza personale, Cafaro firma un testo ironico e puntuto, che vuole smascherare i falsi miti legati al riposo e al suo contrario, l’oberazione, per decostruire un atteggiamento che ci riguarda tuttə – seppur spesso in modo differente – da molto vicino. Prendendo poi ispirazione, in ottica antispecista, dai porcellini d’india e da altri animali «pisoloni», come i koala, i bradipi e i pipistrelli, l’autrice esorta a manifestare i pisolini e a riconsiderare la nostra esperienza: non siamo ingranaggi di un unico grande macchinario di cui, tra l’altro, non siamo padronə. Siamo corpi vivi, oltre il lavoro, contro il lavoro e la hustle culture, ossia la totale devozione dell’individiduə al proprio mestiere. Dobbiamo dormire, dobbiamo riposarci, mettere in atto una pratica altruista del riposo. Riposiamo e, insieme, permettiamo anche aə altrə di riposare. Immaginiamo un mondo nuovo, a partire dal nostro letto. È un gesto femminista, rivoluzionario.
Ora, davvero, spegnete tutto. Spegniamo tutto. Riposate.
Qui di seguito una playlist che, spero, vi aiuterà a farlo. Ho selezionato per voi qualche brano che celebra la gioia del non fare, l’ozio totale, l’amore per il sogno, il bisogno del riposo. Fatene buon uso.
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