Burnout: l’importanza di fermarsi senza bruciarsi

Questa estate arriva più agitata, tragica, e torbida che mai. Fermarsi e ricarburare non è un diritto, quanto un'urgenza.

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Flaming June, an 1895 painting by Frederic Leighton
Flaming June, an 1895 painting by Frederic Leighton
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Non c’è stagione che aspetto più dell’estate: la romanticizzo, bramo, e accolgo a braccia aperte da quando ho sette anni, con un senso di aspettativa per ciò che mi aspetta in quel lasso di tempo: cosa accadrà in quell’intervallo temporale? Cosa me ne faccio di tutta quell’adrenalina, quando la malinconia dolce amara di Settembre fa capolino e mi accorgo che devo aspettare un altro anno, tocca sorbirsi un altro lungo inverno prima di rifarlo da capo?

La verità è che da quando avevo sette anni l’estate assume nuove forme, o è sempre la stessa stagione, e cambio io e le mie responsabilità: la gioia selvaggia che provavamo da ragazzini quando sapevamo di poter rotolarci nel prato per tre mesi di fila, permettendoci di lasciare il libro delle vacanze nella cartella e non aprirlo nemmeno per sbaglio, fa i conti con i nostri rispettivi lavori: i lavori che abbiamo sempre sognato, quelli che detestiamo, quelli momentanei, quelli che dovremmo trovarci, ci riempiono la valigia di impegni che dobbiamo portare a termine, urgenze e scadenze che ci rincorrono tutto l’anno ma quando subentra l’estate si accavallano l’una sopra l’altra. La retorica del sacrificio e della fatica ci abitua ad assecondare il bisogno di fermarci, rendendo il motore delle nostre giornate, anche quando il nostro corpo e la nostra testa non sono più presenti, equipaggiati, e sostenuti per portarlo avanti come meriterebbe: tutto questo prende anche la parola di burnout, o anche sindorome di burnout. Significa letteralmente bruciarsi, esplodere, scoppiare, esaurirsi. È l’effetto collaterale di un contesto lavorativo che arriva a logorarci, sfibrare ogni nostra energia o risposta creativa, fino al crollo. “Non ce la faccio più” è una frase che potremmo trovarci a ripetere spesso, dopo trenta minuti di jogging o arrivati alla quarta ora di lezione, ma cosa vuol dire non farcela più? Quando arriva il momento di fermarsi?

L’errore più grande che possiamo compiere parlando di burnout è associarlo al singolo: è colpa tua che non hai saputo settare dei paletti, non dici mai di no, non ti organizzi, non chiedi aiuto, non capisci ancora cosa sei in grado di fare e cosa no. Devi ancora imparare, devi ancora abituarti a questi ritmi, devi ancora crescere. Ma andare in burnout è la conseguenza naturale di un sistema improntato sulla produttività immediata e l’efficienza di default: il problema non è l’impostazione capitalistica che ci circonda, quanto noi che non sappiamo starci dietro. L’obiettivo non è più riconsiderare da capo la presunta “etica del lavoro” e la “dedizione al sacrificio”, quanto le nostre capacità, energie, che non sono sufficienti o non disposte come dovrebbero per adattarsi a dei ritmi, che di base, non ci fanno bene. Fermarsi e ricarburare quindi genera sensi di colpa, la sensazione di non star facendo quello che dovremmo, di non adempire ai nostri doveri e quindi non meritarci quel posto di lavoro, e nel peggiore dei casi, portare avanti la carriera dei nostri sogni.

Natalie Brite nel suo articolo Is it burnout or internalized capitalism?, parla di “capitalismo interiorizzato” che la porta a reagire al burnout con degli “approcci cerotto”, delle azioni di risposta che le permettono di ricarburare solo per poter riattivarsi allo stesso sistema lavorativo che l’ha esaurita, ripetendo la stessa danza che ci annienta a ciclo regolare.

Ma anche quando scelgo finalmente di archiviare il lavoro e riprenderlo a seconda dei miei tempi o esigenze, di dire no e settare i miei personali paletti, c’è sempre qualche pulce nell’orecchio che impedisce al mio corpo e mente di accasciarci: dovrei seguire quel corso, dovrei leggere quel manuale, dovrei esercitarmi, dovrei studiare. L’intervallo non è più per rilassarsi, ma per ripassare il capitolo prima dell’interrogazione e anticipare i compiti che non hai fatto il giorno prima. Metti da parte il lavoro per concentrarti su un altro lavoro, per rincorrere un altro impegno, e ancora una volta non ascolti le condizioni della tua mente e del tuo corpo. Cosa succede se sospendo i doveri? Se spegni finalmente cervello e urgenze, e ti lasci dondolare nel vuoto? Dove incanalare l’energia di Giugno? E se va sprecata, se resta soppressa, se non è abbastanza?

È bene anche ricordare che la condizione di ogni persona varia a sé, che il diritto sacrosanto e fondamentale di fermarsi non è sempre una scelta semplice, e che il privilegio gioca spesso un ruolo importante nelle libertà che possiamo concederci o meno. Ma l’urgenza di fermarsi e sostare nel vuoto, di dondolarci nel nostro riposo, rielaborare le nostre paure e dolori, non è una colpa. Siamo un caleidoscopio di pensieri, idee, forze, e spunti che vanno preservati, curati, ma anche lasciati libere di disperdersi, confondersi, e riposarsi insieme a noi. Questa estate potrebbe essere l’occasione  per cominciare a destrutturare i dogmi della produttività nociva che ci ha accompagnato tutto l’anno, e iniziare a capire come vogliamo lavorare e produrre senza smettere di ascoltarci. Senza sorbirsi un altro inverno per rifarlo da capo.

 

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