Perché Monica Bellucci è una attrice straordinaria: una dichiarazione d’amore

È arrivata in queste ore a Venezia per presentare "On The Milky Road", il film di Emir Kusturica in cui è co-protagonista: ecco perché amiamo Monica Bellucci.

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Sono innamorato di Monica Bellucci. Intendiamoci: ciò di cui sto per scrivere non è principalmente la sua bellezza – che è riconosciuta dai più, quasi senza eccezioni. Proverò infatti a dire, in queste poche righe, perché penso che Monica Bellucci (che in queste ore si trova a Venezia a presentare il suo ultimo film “On the Milky Road” di Emir Kusturica, candidato al Leone d’oro) sia, di fatto, un’attrice straordinaria.

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In qualche modo questa vuole essere una risposta a quel vago fastidio, direi al turbamento, che si osserva verso una donna dal successo internazionale, vistosamente bella, molto famosa. Che è innegabilmente attraente, ha una voce intrigante, non ha mai avuto problemi a mostrare (e scoprire) il proprio corpo. È, in fondo, una mossa piuttosto comune: si cerca di sottrarre credibilità e valore e per farlo ci si appella sempre agli stessi argomenti: bellezza e sensualità come macchia, colpa. Una bellezza che, ribatte chi invece è sedotto dalla sua presenza scenica, sa addensare immagini e atmosfere – che non saranno forse quelle di un’emotività impetuosa e sanguigna, ma che si situano sul piano misterioso del fascino che calamita, che afferra, delle cose dotate di aura, che sanno farsi guardare. A lungo.

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Una preziosità naturale del gesto e della voce – basti, per farsene un’idea, vederla in uno dei suoi ultimi film, il delicatissimo Le meraviglie di Alice Rohrwacher del 2014 o Ville Marie di Guy Edón del 2015 – il peso massimo dato a ogni parola e, ancora, una fierezza, una consapevolezza di sé non tronfia ma in qualche modo istruita anche sui propri limiti. Una bellezza struggente (non a caso le hanno proposto spesso ruoli drammatici, qualche volta tragici, mentre lei ha dichiarato che vorrebbe fare più commedie) e che sempre più diventa tale col passare degli anni. Un’individualità massima, fortissima. Monica Bellucci, si potrebbe forse dire, è più un’attrice di presenza, che un’attrice di performance.

Una bellezza fuori dal comune, certo, e come può non essere interessante vedere cosa succede alla bellezza? Come può trionfare o fallire, conquistare (Malèna), essere redenta (The Passion) o offesa, sfregiata, stuprata (Irréversible)? Ha detto di lei Bernard Blier: “È la sua femminilità totalmente consapevole che la fa amare. È una donna fiera di essere donna, non si vergogna del suo seno, non si vergogna di eccitare i sensi degli uomini. Questo è il suo segreto, lo stesso di Ava Gardner, delle star di una volta”. I suoi personaggi sono indimenticabili, iconici pure loro: figure favolose, sognanti, a volte estreme, fuori misura, presenze che arrivano da altri mondi, altri tempi o ci finiscono: la sorda criminale di Dobermann (1997), la grande vendicatrice de L’ultimo capodanno (1998), la vedova imperdonabile in Malèna (2000), la Cleopatra di Asterix e Obelix (2002), la perfida strega che lotta contro I fratelli Grimm (2005), la dark lady del fascismo italiano Luisa Ferida in Sangue pazzo (2008).

Monica Bellucci è un’attrice che incarna un modo possibile di essere attrice ovvero di raccontare storie con la propria presenza, col corpo, il viso, la voce. Vi possono essere senza dubbio altri modi di essere attore, attrice: più ricchi espressivamente o più raccolti attorno a uno stesso nucleo stilistico, più drammatici o più introversi, minimali. Ognuno avrà alla fine le sue preferenze ma resta che Monica Bellucci è ormai un’icona, e ormai un’icona del cinema, allo stesso tempo un’attrice e più di un’attrice.

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Lo confermano le sue partecipazioni alle molte produzioni internazionali, l’adorazione che suscita ormai da anni in Francia, i riconoscimenti a Hollywood. Si possono allora anche tollerare gli slanci dei critici dell’ultima ora, tollerare i loro appunti fatti alla poca ricchezza espressiva (che io chiamo eleganza), alla scarsa credibilità (che io chiamo pregiudizio)alla mimica poco vispa – come se essere attori fosse per forza una questione di cambiare molte espressioni, fare molte facce. La presenza di Monica Bellucci è qualcosa che sfugge a questi tentativi un po’ tristi di quantificazione. La sua presenza si svincola da queste prese un po’ goffe e si situa su un altro piano, quello delle dive che non sono tenute a rispettare standard, a fornire performance, a superare prove: devono esserci, apparire, e tanto basta. Anche Marilyn Monroe fu in fondo criticatissima: senza memoria – si diceva, col suo stile svenevole, la sensualità prorompente, un’oca con un bel corpo.

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Si dice che Monica Bellucci “è sempre nuda” nei suoi film: come se l’essere avvenenti o sensuali potesse davvero testimoniare qualcosa sulla capacità attoriali, come se davvero potesse essere sinonimo di “poco serio”, di scarso valore. I suoi modi suadenti, l’abilità nel maneggiare il lessico della seduzione e un corpo bellissimo stanno alla base di certi giudizi automatici. Pre-giudizi che la stessa Bellucci conosce bene: “Sono nata in provincia. Lì qualsiasi bella ragazza suscita una curiosità morbosa. Dà fastidio. Per il solo fatto di esistere. Basta che parli con uno e già ci sei andata a letto. Per i maschi sei un oggetto, per le donne una puttana”. La bellezza come colpa. Che deve essere perdonata, a cui si presenta il conto. Ma Monica Bellucci non ha (almeno finora) scelto di imbruttirsi per risultare credibile (alla Charlize Theron, per intenderci, osannata per il suo Monster). Ha cercato invece di mantenere uniti glamour e racconto, di raccontare attraverso la bellezza.

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Perché in fondo Monica Bellucci non è affatto solo bella, come qualcuno ogni tanto afferma. È, vorrei dire, un presenza evocativa, propriamente carismatica – ovvero dotata della capacità di esercitare influenza sullo sguardo degli altri. Carismatica nel senso originale del termine: il greco charisma, derivato da un altro termine, charis, “grazia”. Monica Bellucci è piena di grazia.

Tutto un universo lessicale, questo, che si lega all’idea del dono. Della sfera del gratuito, delle cose che arrivano, che fioriscono senza un perché. Fuori da previsioni e standard depositati, pregressi. La bellezza, quando è davvero tale, è apparizione, teofania – comparsa dell’eccezionale, manifestazione di una realtà che sembra trascendere le proprie caratteristiche materiali. Ciò che è davvero bello finisce col non essere più (solo) bello. Passa di piano, di livello. E diventa più denso, eloquente. Parla d’altro. Racconta, svela, rivela. Questo il significato delle icone, nel loro senso originario di immagini fatte per essere trascese, per portare altrove, più in alto.

Jonathan Bazzi

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