“[I centri] esistenti continueranno a ricevere un’offerta da parte del governo. Ma sotto il nostro governo non nasceranno nuovi”. Così Assuntina Morresi – vice capo di Gabinetto della ministra alla Famiglia e alla Natalità Eugenia Roccella – confermava in un incontro a porte chiuse con le associazioni una linea di condotta governativa volontariamente volta a limitare l’espansione delle strutture di accoglienza e protezione rivolte alla comunità LGBTQIA+. Nonostante i tentativi di smentita successivi, oggi tale linea di condotta viene ulteriormente rafforzata.
Fortemente depotenziato il fondo nazionale UNAR per l’istituzione e il rafforzamento dei centri contro le discriminazioni motivate da orientamento sessuale o identità di genere: il Governo si limiterà a mantenere le realtà esistenti, senza permettere l’apertura di nuovi, necessari spazi sicuri per una comunità LGBTQIA+ che nel nostro paese è sotto assedio.
Sono ormai all’ordine del giorno gli episodi di violenza e abuso a sfondo omolesbobitransfobico a tutti i livelli, dal lavoro alla famiglia alla scuola, nelle nostre strade e piazze, e addirittura a livello istituzionale. Eppure, la posizione ideologica di questo governo – che sin dal suo insediamento insiste nell’ignorare la discriminazione sistemica verso le minoranze sessuali che esso stesso contribuisce ad alimentare – fa sì che tutto venga spazzato sotto il tappeto.
Se il fondo specifico non potrà essere cancellato almeno fino al 2027, appare evidente che l’attuale amministrazione abbia scelto di operare entro i limiti delle norme esistenti per minimizzarne l’impatto.
La decisione di finanziare solo le strutture già forti e operative esclude de facto la possibilità di creazione di nuovi centri, tagliando fuori tutta quella parte di rete grassroots fondamentale per l’assistenza immediata e locale alle vittime di discriminazione e violenza e colpendo particolarmente le aree provinciali e le piccole comunità, dove la presenza di strutture antidiscriminazione è spesso assente o insufficiente.
Intervistato da Simone Alliva per l’Espresso, Trianda Loukarelis – responsabile advocacy internazionale per Unicef e direttore del dipartimento UNAR nel 2020 – ha spiegato come il bando segua una semantica che di fatto blocca l’apertura di nuove case rifugio, relegando il sostegno a semplici sportelli di consulenza che, seppur utili, non possono rispondere adeguatamente alle necessità delle vittime:
“Il fatto di parlare di rafforzamento somiglia proprio a una scelta ideologica, mi spiego; quando fu fatto il primo bando, all’epoca anche lì si decise di non finanziare nuove case rifugio ma per due motivi: era una novità assoluta e bisognava fare una sperimentazione, il secondo perché il dipartimento Pari Opportunità sosteneva, insieme ad alcune regioni, che bisognava attendere linee guida per le case rifugio per donne vittime di violenza, per stabilire nuove regole. Adesso sono passati anni e non c’è nessuna giustificazione per non finanziare la nascita di nuove case. Il non detto che leggo da questo bando è chiaro: per evitare critiche confermiamo l’esistenza delle case che già ci sono, ma non vogliamo crearne nuove. Anche se servono”
Solo l’ennesimo esempio di una politica che preferisce non vedere, non sentire e non parlare dei problemi reali, lasciando vittime di discriminazione e violenza “di serie B” a combattere da sole una battaglia quotidiana per la propria dignità e sicurezza solo perché colpevoli di essere nella parte sbagliata di una terrificante agenda ideologica.
Update 1 agosto: Pubblichiamo per intero la richiesta di rettifica da parte del direttore UNAR Mattia Peradotto.
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