Ho 39 anni, da quasi 20 sono dichiarato con tutti, tra amici e parenti, sono capo-redattore di Gay.it, scrivo della nostra meravigliosa e variegata comunità da 15 anni, agogno il giorno del Pride ad ogni latitudine, sono di fatto la quintessenza della visibilità queer.
Eppure l’estate scorsa ho vissuto sulla mia pelle, inaspettatamente, un qualcosa che è difficilmente descrivibile, perché solamente percepito. L’omotransfobia non si ferma all’insulto, alla violenza fisica, alla discriminazione sul posto di lavoro. Queste realtà quotidiane, che la stragrande maggioranza delle persone LGBT ha vissuto in prima persona, finiscono inevitabilmente per incontrarsi e dar vita a qualcosa di ancor più potente, spaventoso. Una paura inconscia, avvertita, fiutata, costantemente temuta.
L’estate scorsa stavo frequentando un ragazzo. Lui dichiarato, io abbondantemente dichiarato. Erano giorni caldi, bollenti a livello climatico e ad alta tensione sul piano della cronaca omotransfobica. Aggressione a coppie gay si sommavano, settimana dopo settimana. Ragazzi insultati e picchiati per un abbraccio, un bacio in strada. Ne ho scritto, tanto, con quelle parole impregnate di lacrime e sangue che ti restano sottopelle, ad infettare certezze che si pensano inattaccabili. A me, nato e cresciuto a Roma, non è mai capitato di essere aggredito in strada. A scuola ho subito omofobia verbale e fisica, ma da adulto nessuno ha mai osato alzare anche solo un dito. Mi ritengo fortunato, molto fortunato.
Quel caldo pomeriggio di luglio accompagno all’auto il ragazzo che frequento da poche settimane. In strada c’è tantissima gente. Lui si avvicina per baciarmi sulla bocca, per salutarmi, com’è normale che sia. E io, del tutto inaspettatamente, mi ritraggo. È stato un decimo di secondo, puro istinto. In quell’attimo mi è sembrato come se il traffico attorno a noi si fosse fermato, se il brusio fosse scomparso, come se tutti stessero guardano noi due. Solo e soltanto noi due, così vicini da scambiarci un bacio. Quel bacio che ho negato al ragazzo che avevo davanti, sorpreso dal mio ‘rifiuto’. Ho sofferto per giorni pensando a quanto avvenuto, ho provato a spiegare quell’irrazionale e doloroso attimo che mi ha visto ritrarmi, guardarmi attorno con fare timoroso. Perché nessuno dovrebbe provare paura per un gesto d’affetto. È una sensazione talmente innaturale da non trovare parole adeguate per riuscire a descriverla. È praticamente impossibile. Bisognerebbe viverla in prima persona. E non importa che tu sia represso, nascosto ‘nell’armadio’ o da decenni a tutti dichiarato, come nel mio caso.
Non a caso questo è esattamente quello che migliaia di persone LGBT provano ogni santissimo giorno. Perché l’omotransfobia è diventata talmente endemica, in questo Paese, dall’aleggiare continuamente sulle nostre teste. Ed è quella percepita, paradossalmente, ad essere ancor più infame, perché costante, incapace di abbandonarti, tanto da limitarti, frenare le tue libertà. Libertà d’amore, di essere. “Ma è un tuo problema, è solo nella tua testa“, molti replicheranno. Sbagliando. Perché quando si è in una zona di guerra si vive nel terrore incessante, con i sensi perennemente sul chi va là. Vivere in un Paese omotransfobico è paragonabile al vivere in una zona ad altissimo pericolo, con tutte le doverose differenze del caso. Perché non sai mai se puoi realmente sentirti al sicuro, come potranno reagire gli sconosciuti attorno a te nel caso in cui dovessi osare baciare il tuo compagno, tenergli la mano, abbracciarlo. Non sai mai come potranno reagire semplicemente dinanzi alla tua presenza, per chi e come sei, per come sei vestito, per il tuo tono di voce, per la mimica del tuo corpo. Ovunque ti trovi, che sia una piazza assolata e colma di gente, un cinema, un bar, un vicoletto buio, una spiaggia, un parcheggio, una fermata della metropolitana, potresti trovare qualcuno pronto ad aggredirti per quel bacio, quell’abbraccio, quella mano stretta con tenerezza. Nella stragrande maggioranza dei casi non accade niente, fortunatamente, ma potrebbe capitare. E tu lo sai.
Si vive di fatto con una sensazione di inconscia e costante apprensione, se si è in coppia, in pubblico, al di fuori dei “luoghi LGBT”, perché c’è ancora parte della società che ci considera diversi, sbagliati, da tollerare ma solo e soltanto se certe cose le facciamo “a casa nostra”. Perché tra le lenzuola è concesso tutto, continuano a difendersi da destra mascherandosi da paladini della libertà, ma alla luce del sole tutto cambia. Così arriva quell’attimo fugace, quel lampo improvviso e totalmente irrazionale che muta completamente la meraviglia di due labbra che si incontrano, due mani che si stringono, due braccia che si cingono.
Negare l’esistenza di quest’odio, come fatto da Salvini e Meloni, significa disconoscere la realtà quotidiana, disconoscere le violenze, gli insulti, la descriminazione, questa percezione alimentata da decenni di società sessista, patriarcale, razzista, dichiaratamente omotransfobica. A costoro chiedo di mettersi nei nostri panni, anche solo per una settimana. Provare a chiedersi cosa possa significare non poter vivere pienamente il proprio io, il proprio amore di coppia, alla luce del sole. Liberamente, senza condizionamenti esterni, che siano percepiti o esplicitati. Provare a fermarsi prima di dare un bacio alla propria compagna, o al proprio compagno, perché costretti a guardarsi attorno, a domandarsi se “sia il caso” oppure no, se ci possano essere rischi, se quel signore all’angolo che vi sta fissando abbia uno sguardo segnato dallo stupore, dalla curiosità o dall’odio, se forse sia il caso di rientrare in auto, se non addirittura a casa, dove fortunatamente “tutto è concesso”, compreso quel bacio prima negato. Impazzireste dopo 24 ore. Noi siamo costretti a farlo da tutta una vita. E non ne possiamo davvero più.
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