I biopic musicali sono ormai diventati i nuovi cinecomics. Ad Hollywood si producono musicarelli a ritmo battente, con protagonisti puntualmente candidati se non addirittura premiati con l’Oscar. Da Rami “Tale e Quale Show” Malek nel sopravvalutato Bohemian Rhapsody a Renée Zellweger in Judy (Garland), passando per lo strepitoso e sottostimato Taron “Elton John” Egerton di Rocketman, la presto dimenticata Naomi Ackie di Whitney – Una voce diventata leggenda, la sorprendentemente deludente Jennifer “Aretha Franklin” Hudson di Respect, il super Austin Butler di Elivs (Presley) e il recentissimo Kingsley Ben-Adir di Bob Marley – One Love, in attesa che Timothée Chalamet diventi Bob Dylan in A Complete Unknown di James Mangold e Madonna torni a scrivere e dirigere la sua stessa vita. Perché il tradizionale biopic che ricostruisce carriere sulle note di celebri canzoni tendenzialmente piace, e non solo allo spettatore medio bensì anche a quegli attori chiamati a calarsi in abiti iconici, mai dimenticati, e in voci indimenticabili.
Ultima star di quest’infinita lista è Marisa Abela, attrice britannica ai più sconosciuta vista in Barbie di Greta Gerwig e ora pronta al decollo grazie alla prova di una vita. Far rinascere Amy Winehouse, deceduta nel 2011, nella sua Camden Town, a Londra, a soli 27 anni. Una vita bruciata troppo rapidamente, quella dell’artista inglese, riuscita in pochi anni e con solo due album a conquistare il mondo. Prima Frank, poi l’epocale exploit con Back to Black, vincitore di 5 Grammy e in grado di vendere 20 milioni di copie in tutto il mondo. E il biopic diretto da Sam Taylor-Johnson, nel 2009 autrice dell’ottimo Nowhere Boy, film incentrato sull’adolescenza di John Lennon, e vista all’opera anche con Cinquanta sfumature di grigio, si rifà proprio al titolo di quel memorabile disco per celebrare un talento più unico che raro, che viveva di musica, nata per cantare, per essere semplicemente sè stessa, pin-up anni ’50 e ’60 catapultata nei primi anni ‘2000, con tutti i suoi problemi, le sue debolezze, i suoi fantasmi interiori e le sue dipendenze.
Back to Black, in arrivo al cinema il prossimo 18 aprile, racconta la rapida ascesa al successo di Amy Winehouse, la sua infinita e travagliata storia d’amore con Blake Fielder-Civil, il suo rapporto con l’idolatrata nonna Cynthia, la genesi del suo secondo rivoluzionario album, ma soprattutto le fragilità di una donna travolta dal tanto detestato successo, dall’accecante popolarità, da un talento che le bruciava dentro e che necessitava di vivere per prendere forma. Chiaramente tutto ruota attorno a Marisa Abela, che si è letteralmente trasformata in Amy Winehouse. La somiglianza con la cantante, sia nel fisico che nella mimica, è a dir poco impressionante, così come la voce, che Abela ha voluto mantenere sua, osando l’inosabile.
La sceneggiatura di Matt Greenhalgh, che aveva scritto non solo Nowhere Boy ma anche lo splendido Control sulla vita di Ian Curtis, enigmatico cantante dei Joy Division, prova a non precipitare nella tragedia di un’esistenza consumata tragicamente, dando spazio ad un’Amy più tenera e meno cupa, desiderosa di essere moglie e madre, più che popstar. Ma dovendo abbracciare 15 anni di esistenza in 2 ore scarse di pellicola inevitabilmente si corre, si tralascia, si romanza, si modera, si cede alla superficialità. Back to Black diventa così la ricostruzione di una storia d’amore tossica, quella tra Amy e Blake Fielder-Civil, interpretato da un eccellente Jack O’Connell. Lei giovane artista cresciuta a pane e jazz ammaliata dai bad boys, lui fascinoso scommettitore a cui piace la droga. Lei se ne innamora quasi immediatamente, lui prima la conquista, l’inizia al crack, la lascia, le spezza il cuore, la ritrova per approfittare del suo successo e coprire i debiti e l’abbandona nuovamente. Un mix emotivamente letale che accompagnò Winehouse, da sempre bulimica e alcolizzata, verso l’autodistruzione.
Back to Black è un juke-box emozionale di canzoni e aneddoti privati, che faticano però ad immergersi nella vera anima dannata della sua protagonista. Il rapporto conflittuale con Mitch Winehouse, che ha dato il via libera alla pellicola dopo aver ampiamente criticato il documentario premio Oscar di Asif Kapadia, appare enormemente edulcorato, addolcito, accuratamente ripulito, in modo tale da farlo uscire come padre del secolo, mentre sua mamma si vede poco o niente. Lesley Manville interpreta la dolce nonna Cynthia, vero cono di luce nella buia esistenza di Amy, sua musa ispiratrice musicale e d’immagine, mentre Sam Taylor-Johnson si sfornza a seminare i tanto amati brani di Winehouse, inciampando sul discutibile montaggio a stelle e strisce del singolo Back to Black. La stessa realizzazione del disco è appena accennata, fugace, a tal punto dal non concedere neanche una battuta al produttore Mark Ronson, di fatto solo nominato.
La regista riesce invece a centrare l’asfissiante presenza dei paparazzi, che all’epoca seguivano Amy ad ogni passo, fotografando le sue cadute, le sue sfuriate, il suo essere costantemente sull’orlo di un precipizio. I social all’epoca non erano ancora esplosi, i tabloid la facevano da padroni e Amy era perennemente sbattuta in prima pagina, trattata come uno squilibrato freak da copertina, pur volendo rimanere nel suo privato, nel quasi anonimato, nella sua amata Camden.
Come accaduto con Bohemian Rhapsody, anche in Back to Black si ammorbidisce il lato più oscuro di Amy. In tutto il film si vede una sola striscia di cocaina, mentre il crack compare rapidamente in un paio di scene, senza mai mostrarci la sua protagonista farne uso. Anzi, l’Amy cinematografica ci tiene a precisare che considera dei “deficienti”’chi fa uso di droga, fumando lei solo erba, prima di cedere al marito tentatore. La Winehouse di Abela tracanna litri e litri di alcool, quello sì, ma il biopic non ci prova neanche ad esplorare le possibili motivazioni alla base di quella dipendenza, rimanendo volutamente in superficie. L’infanzia travagliata della cantante, afflitta dal non aver mai superato il divorzio tra i suoi genitori, e la sua bulimia rimangono sullo sfondo. Sam Taylor-Johnson e Matt Greenhalgh scelgono la strada più ovvia e chiacchierata, chiamata Blake Fielder-Civil, l’ex marito che a detta di tutti condusse per mano Amy verso il baratro. L’intero film racconta la loro distruttiva storia d’amore, da quel primo magico incontro in un pub di Londra tra una partita di biliardo e l’altra all’addio in carcere, fino a quel finale sensazionalistico e ad oggi infondato con cui regista e sceneggiatore hanno provato ricostruire le ultimissime ore di vita di Winehouse, icona britannica che non voleva essere una “cazzo” di Spice Girl. Fu Blake a spezzare il cuore di Amy, che non riuscì a reagire, a resistere, a rialzarsi, a rimettere insieme i cocci del proprio tormento interiore, finendo per soccombere al dolore.
Sconfitta dall’amore (“Love is a losing game“, cantava nel 2006), potrebbe essere il sottotitolo di un’opera profondamente imperfetta ma emotivamente parlando presente, segnata da una prova d’attrice inattesa, intensa e clamorosamente promossa, perché Marisa Abela (con un paio di commoventi piani sequenza musicali di tutto rispetto) è riuscita a non infangare il ricordo di un talento che milioni di persone hanno imparato presto ad amare e altrettanto rapidamente a (rim)piangere.
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