“La concezione dell’HIV è ferma agli anni ’80”, video-intervista al regista di Positivə

In occasione della giornata mondiale contro l’AIDS, abbiamo intervistato Alessandro Redaelli, regista di "Positivə", documentario che ripercorre i 40 anni dalla scoperta dell'HIV tramite la quotidianità di quattro persone HIV+.

La concezione dell’HIV è ferma agli anni ’80”, video-intervista al regista di Positivə Alessandro Redaelli
video-intervista al regista di Positivə Alessandro Redaelli
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Il documentario Positivə, diretto dal regista Alessandro Redaelli, racconta i 40 anni della lotta all’HIV attraverso le storie di quattro persone HIV+. Il progetto è stato presentato in anteprima lo scorso 24 novembre al Cinema Anteo di Milano.

Daphne Bohémien, Daria Russo, Simone Caserta e Gabriele Vannucchi sono, in ordine, una donna transgender, una donna cis, un uomo omosessuale e un uomo eterosessuale che raccontano la scoperta della loro sieropositività e la convivenza con il virus, denunciando lo stigma che ancora oggi aleggia attorno alle persone HIV+.

“Milano, 18 novembre 2021. Un viaggio in macchina verso il mare tra quattro sconosciuti, tutti under 40, tutti HIV+, per scoprire le loro vite e raccontare a volto e cuore scoperti cosa significhi avere l’HIV oggi, in un’epoca in cui è possibile convivere con il virus e condurre vite normali ma che vede ancora le persone infette vittime di un enorme stigma sociale”.

alessandro redaelli

In occasione della giornata mondiale contro l’AIDS, abbiamo incontrato e intervistato il regista Alessandro Redaelli – autore della fortunata opera prima Funeralopolis – con una passione per il cinema coltivata fin da piccolissimo, “mi è sempre piaciuto girare video, già a 10 anni facevo esperimenti con le prime riprese”, e perseguita prima al Liceo e poi alla Civica Scuola di Cinema “Luchino Visconti”, presentando come tesi di laurea proprio Funeralopolis, “dove ho seguito per due anni due persone tossicodipendenti. Quel film è andato molto bene e ho deciso di specializzarmi nel linguaggio del documentario di osservazione”. 

Redaelli è stato scelto per la realizzazione di “Positivə” dai produttori Francesco Maddaloni, Salvatore De Martino e Guido Radaelli, con l’idea di raccontare i 40 anni dalla scoperta dell’HIV,  “cercavano dei nomi e hanno chiamato me. Io sono stato felice di accettare perché mi sento a mio agio a raccontare temi di rilevanza sociale in chiave pop“.

Nel documentario oltre alla testimonianza delle quattro persone HIV+, sono presenti i ricordi e gli aneddoti di personaggi noti (da Loredana Bertè a Oliviero Toscani, fino allo scrittore Jonathan Bazzi) che hanno vissuto il periodo più buio della lotta all’HIV o anch’esse HIV+, ricordando il loro lavoro sul campo o gli amici venuti a mancare. “Hanno svolto un ruolo fondamentale gli autori e le autrici che hanno provato a chiamare chi in questi 40 anni ha raccontare l’HIV. – ha raccontato il regista – Per fortuna le persone sono state ben felici di partecipare, perché il tema è importante e ormai poco discusso”. 

alessandro redaelli
Il regista Alessandro Redaelli

Come è cambiata (se è cambiata) la tua visione e la tua percezione della sieropositività una volta finito questo documentario?

Prima di girare il film, la mia visione della sieropositività era abbastanza limitata. Conoscevo le informazioni base, ma non sapevo nulla riguardo la PrEp o molte cose fondamentali che gravitano attorno all’HIV. Ho imparato tanto sulla prevenzione e sul piano tecnico-scientifico. Ma in più, ho preso coscienza di quanta disinformazione c’è. Basti pensare a quanto normale fosse per me che le persone presenti nel film si mostrassero a viso scoperto. Ho capito che non è scontato, per molti di loro non lo è. C’è ancora tantissimo da fare perché la concezione dell’HIV è ferma agli anni ’80.

Dopo l’infodemia degli anni ’80 e ’90, mi sembra che oggi ci sia una chiara volontà a parlare di meno dell’HIV, abbassando di molto la guardia. Cosa pensi a riguardo?

In Italia, la comunicazione riguardo l’HIV è complicata. Un po’ perché negli anni ’80 l’ondata di informazione serviva ad allontanare e spaventare le persone (oggi possiamo dire che non è servito, anzi ha creato diversi problemi). La gente non ne sa nulla, o sa poco e male, quindi è ancora intimorita; sa che esiste l’HIV e sa che vuole starne alla larga.

Oggi il dibattito sull’HIV è sicuramente passato in secondo piano, non si sa perché. I casi ci sono ancora, i numeri negli ultimi anni aumentano e bisogna parlarne. Fondamentale è l’educazione sessuale nelle scuole. Ai ragazzi – escluse alcune eccezioni dovute a scuole particolarmente illuminate – non viene insegnata la prevenzione, non viene insegnato come comportarsi di fronte l’HIV.

Io ho accettato di fare questo documentario perché è come il discorso del mio primo film Funeralopolis, in cui parlavo della tossicodipendenza. Anche di questo aspetto non si parla, anche questo è uno stigma. I protagonisti di quel progetto erano persone giovanissime, avranno avuto massimo 16 anni, e sono i soggetti maggiormente a rischio, non sapendo come affrontare la tossicodipendenza e come rapportarsi all’eroina. Semplicemente non sanno cos’è, come non sanno cos’è l’HIV, sono due cose distanti tra loro ma accomunate dalla mancanza di informazione o addirittura cattiva informazione. 

Il tuo lavoro quindi si concentra su ciò che è al margine, su chi non è considerato?

Il cinema italiano tratta sempre gli stessi argomenti, si fa sempre il solito tipo di commedia o il solito racconto drammatico; sono sempre film per un pubblico bianco over50. Questa roba a me non interessa. Mi interessa andare a fondo, approfondire i discorsi relativi alle persone non considerate dalla nostra società. Tutti i film che ho fatto riguardano tematiche di cui non si sa nulla. O ci sei dentro oppure non le conosci. A me interessa approfondire, sia per informarmi sia per dire agli altri “andate a vedere ciò che c’è fuori dalla vostra piccola bolla”. 

Al di là di come vengono percepite dall’esterno, come affrontano la propria sieropositività le generazioni precedenti, travolte dagli anni ’80, e le nuove che invece hanno subito un calo dell’informazione ma sono native dei social?

La generazione precedente ha più paura, perché ha vissuto sulla propria pelle il periodo in cui era completamente marginalizzata. Questo porta a non esporsi, anzi a nascondersi e avere vergogna. 

Le nuove generazioni invece sono stanche. Non hanno vissuto quel tipo di ghettizzazione (ovviamente lo vivono, ma non sono state travolte dagli anni ’80). Ecco, questo le spinge a dire con più facilità “ho l’HIV, accettatelo e basta. Questa è la mia storia”. Così si raccontano sui social, in un documentario, etc… 

La ‘vecchia guardia’ quindi ha ancora timore, la nuova invece dice “sono così, questa è la mia condizione, accettatemi”.

positiv documentario

Credi che narrare in modo giusto la sieropositività – o altri temi che ora vengono raccontati in maniera errata o addirittura non sono considerati – non possa coesistere con il linguaggio mainstream, ad esempio, della tv generalista? Diviene quindi necessario un documentario specifico come il tuo?

Io vengo dalla scuola del cinema. Quello che mi colpisce e voglio raccontare passa tramite questo linguaggio. Ma non per tutti è così e soprattutto non a tutti interessa vedere un documentario o lo stile cinematografico. Per molti i messaggi passano attraverso la musica, per altri tramite i social, altri ancora la televisione o i giornali. Io credo che ci sia un modo giusto per raccontare la sieropositività, ma non un mezzo giusto. Non c’è bisogno per forza di un documentario di questo tipo; è necessario solo se affiancato da tutta l’altra rete di informazione. Ogni media può trattare questo tema con rispetto e nel modo giusto, conservando il proprio linguaggio.

Pensi che l’HIV sia, secondo il percepito delle persone, ancora collegato, esclusivamente, al mondo LGBTQIA+ (direi soprattutto G)? 

Gabriele, un personaggio del film, a un certo punto racconta un storia; dice di essere andato a un visita di routine e lì incontra un ragazzo che aspetta di fare le analisi. Questo gli dice “io non sono gay, questa cosa la sto facendo giusto per sicurezza, perché poi come giustifico il fatto di avere la malattia dei gay?”. Questo aspetto ovviamente è delirante, tant’è che Daphne, altro personaggio splendido del film, gli chiede “ma aveva le spalline? Questa persona esce dagli anni ’80?”.

Dietro c’è un enorme problema culturale e bisogna aggiungere che le persone LGBTQIA+ sono molto più informate sull’argomento. Hanno molti meno rischi di imbattere nell’HIV; sanno cos’è la PrEp, sanno come comportarsi; insomma, è un sistema che hanno imparato a gestire. Le persone eterosessuali no. Perché credono di essere sopra a tutti gli altri. Credono sia una questione che non può toccarli. Qualcuno all’interno del documentario ci diceva che presto potrebbe diventare un problema estremamente legato agli eterosessuali, perché sono le uniche persone non preparate sull’argomento. 

(Il documentario è uscito sulla piattaforma NEXO+ e, solo per oggi, 1 dicembre, in quattro cinema italiani – Milano: Arcobaleno e Anteo; Bologna: Nuovo Cinema Nosadella e Napoli: Cinema Vittoria).

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