Con la fondazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949, il Partito Comunista etichettò immediatamente qualsiasi orientamento sessuale o identità di genere non conforme all’eterocisnormatività come manifestazione di “decadenza borghese”. Nel 1979, questo atteggiamento portò alla criminalizzazione delle identità non conformi.
Solo nel 1997 il governo cinese depenalizzò in sordina l’omosessualità, per poi rimuoverla dal Chinese Classification and Diagnostic Criteria of Mental Disorders nel 2001. Una decisione che non fu divulgata e che dunque non portò a una maggiore accettazione delle persone queer: la Cina non si impegnò nel sensibilizzare e normalizzare la diversità, anzi.
Sebbene identificarsi come LGBTQIA+ in Cina oggi non sia tecnicamente illegale, non esistono infatti reali tutele giuridiche, familiari e legali, e qualsiasi forma di “promozione” delle istanze della comunità viene repressa – a partire dalla legge che dal 2017 censura qualsiasi tipo di media che rappresenti relazioni o identità diverse da quelle eterosessuali e cisgender, definiti come “comportamenti sessuali anormali”.
Fino ad oggi, con una comunità LGBTQIA+ schiacciata nel limbo del vuoto legislativo, consciamente sfruttato dallo Stato autoritario per perseguitare le minoranze sessuali con qualsiasi mezzo. In un paese sotto stretta sorveglianza, dove non esiste diritto alla privacy, per le autorità è facile raccogliere “prove” circostanziali e decontestualizzarle per compiere arresti sommari e pretestuosi.
Pie Formosa – persona non binaria e attivista – è una delle tante persone queer cinesi costrette a fuggire dal proprio paese. Un’impresa ardua oltre ogni immaginazione: abbiamo raccontato a febbraio la storia di Lai Ke, donna transgender arrestata ad Hong Kong mentre tentava di raggiungere il Canada. Da allora non si hanno più notizie di lei. Fortunatamente, per Pie le cose sono andate diversamente, come racconta a Gay.it.
“Mi ritengo difensorə dei diritti umani, e questo al governo non sta bene. Sono statə arrestatə almeno cinque volte con delle scuse, ho dellə amichə che sono ancora in carcere. Quando però hanno preso di mira anche la mia famiglia, non ho avuto altra possibilità che provare ad andarmene. Ora sono in Italia da due anni e mezzo, spero di ricominciare a studiare – racconta, ed a soli 23 anni ha già provato sulla propria pelle gli effetti delle persecuzioni del governo cinese – sto cercando di ottenere asilo politico come rifugiatə LGBTQIA+”.
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La sua storia è quella di tantissimə altrə giovani LGBTQIA+, costrettə all’isolamento sociale da un Paese che permette loro di vivere la propria identità solo tra le mura domestiche.
“In Cina non è tecnicamente illegale essere LGBTQIA+, ma non puoi darlo a vedere. Finché non socializzi puoi riuscire a nascondere ciò che sei. Ma quando ti fai degli amici, o peggio, inizi una relazione ‘non convenzionale’, lì arrivano i problemi. Puoi farlo, ma devi tentare di farlo di nascosto. Non potrai mai pensare di tenere per mano lə tuə partner, tantomeno baciarlə in pubblico”.
La situazione peggiora ulteriormente per coloro che desiderano costituire un’associazione per la promozione e la tutela dei diritti delle minoranze sessuali. Dall’approvazione della legge contro i “comportamenti sessuali anormali“, molte ONG hanno dovuto cessare le proprie operazioni. Dopo qualche anno di resistenza, anche il Pechino LGBT Center, una delle realtà più attive sul territorio cinese, ha dovuto gettare la spugna.
“Se vuoi fare attività di quel tipo, allora lì sì che diventa pericoloso, perché anche se in pochi vogliono ammetterlo, siamo sotto dittatura. Ricordo che prima del COVID c’era almeno la possibilità, a Shanghai, di organizzare un piccolo Pride, naturalmente non delle dimensioni di quelli occidentali, dei paesi democratici e liberali. Adesso non c’è neanche più quello. La polizia ha arrestato gli organizzatori facendo appello alla legge del 2017”.
Per un cittadino cinese, utilizzare il termine “dittatura” è ancora un taboo. Pie racconta della protesta dei fogli bianchi, che nel tardo 2022 rappresentò un disperato grido d’aiuto da parte dellə studentə cinesi contro l’egemonia del governo di Xi Jinping – che allora aveva strumentalizzato la pandemia per esercitare un controllo ancora maggiore sulla popolazione. Ciò che non è arrivato ai media occidentali, sono le conseguenze della mobilitazione.
“Ci furono innumerevoli arresti, tra cui anche quello della mia ex ragazza. Io ero già persona nota alle autorità anche se me ne ero andatə, quindi quando la interrogarono le chiesero anche di me. La rilasciarono, ma lei ebbe molta paura di continuare la nostra relazione, e quindi mi bloccò ovunque”.
La resistenza contro la dittatura di Xi Jinping è strettamente collegata alla lotta per il riconoscimento dei diritti delle minoranze, tra cui quella LGBTQIA+. Perché qui, la discriminazione verso qualsiasi tipo di diversità è sistemica e profondamente radicata nel tessuto sociale del paese.
“Noi persone appartenenti alla comunità trans* abbiamo una brutta nomea. Siamo mostri. Ricordo al liceo quando un’insegnante ci disse, candidamente, che se due uomini fanno sesso si prendono automaticamente l’HIV. Ricordo l’omosessualità essere definita come ‘malattia’ dalla dirigenza scolastica. Ma anche i movimenti femministi sono stigmatizzati. La donna è vista in funzione della sua responsabilità come moglie e madre. Specialmente nei piccoli centri”.
Una visione diametralmente opposta a quella del governo di Taiwan, piccolo stato insulare indipendente dalla Cina e votato al progresso sociale, che da sempre affronta però pesanti minacce di riannessione da parte del governo di Xi Jinping. Pie appare un po’ restiə a parlarne, ma poi si apre.
“Ammiro Taiwan. È un paese modello, il primo a legalizzare il matrimonio egualitario in Asia e ad occuparsi seriamente dei diritti LGBTQIA+. Quando vedo le immagini del Pride lì, sono orgogliosə per loro, lì c’è ogni anno. Provo un po’ di invidia, io personalmente lo reputo uno stato indipendente. Ma alla Cina questa situazione non piace“.
Da questo punto di vista, ci sono due ‘fazioni’ all’interno della comunità LGBTQIA+. Una la pensa come me. L’altra desidererebbe invece che la Cina riassorbisse Taiwan nella speranza che questo porti una ventata progressista anche dalle nostre parti. Per me è poco credibile”.
>> QUI LA NOSTRA INTERVISTA A UN’ATTIVISTA LGBTQIA+ TAIWANESE
Inevitabile il paragone con la situazione odierna in Ucraina, stato indipendente oggi impegnato in un conflitto armato per difendere la propria sovranità contro l’egemonia della Russia omobtransfobica di Putin.
“La Cina naturalmente sostiene la Russia in questo, quindi è un argomento un po’ spinoso. I cinesi possono solo essere d’accordo con ciò che dice il governo, oppure subire le conseguenze della dissidenza”.
Pie conclude quindi con un appello a non dare per scontato il proprio diritto di voto.
“Sono scappatə in Europa perché qui c’è la democrazia. È molto importante votare, perché se non lo fai accetti – come in Cina – che per te decida qualcun altro. Se noi, se la stessa comunità LGBTQIA+ non lotta utilizzando gli strumenti democratici, le cose non andranno mai come vogliamo”.
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Peccato che un articolo che potrebbe essere anche interessante diventa farsa perche' sembra obbligatorio infilarci una macchietta non binaria e un po' di E rovesciate.