Kenya, la Corte Suprema vieta l’incitamento alla violenza contro la comunità LGBTQIA+. Ma è solo una misura temporanea

Diverse organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato il ruolo della polizia e di alcuni parlamentari nell'esacerbare il già ostile clima per la comunità LGBTQIA+. Il caso è arrivato in Corte Suprema, che nei prossimi giorni valuterà se confermare il divieto.

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Come accade in molti altri paesi africani, anche il Kenya affronta negli ultimi anni un’intensa ondata di omobitransfobia. Analogamente a nazioni quali Uganda e Ghana, il cuore del problema risiede nelle stesse istituzioni.

Nel 2019, la comunità LGBTQIA+ kenyota incassò una profonda delusione quando il parlamento respinse una proposta di legge volta a depenalizzare l’omosessualità. Il governo scelse in seguito di intraprendere una persecuzione ancora più pesante: nel 2023, il parlamento propose un nuovo disegno di legge anti-LGBTQIA+ che – se approvato – prevederebbe il divieto formale di qualsiasi attività considerata come “promozione dell’omosessualità, incluso il dichiararsi apertamente queer e l’indossare simboli associati al Pride.

Le sanzioni previste sono severe: violazioni comporterebbero una pena detentiva minima di 10 anni. Chi fosse invece trovato colpevole di atti omosessuali rischierebbe almeno 14 anni di carcere. Verrebbe poi instaurato il reato omosessualità aggravata” – proprio come in Uganda – che penalizzerebbe ulteriormente i rapporti sessuali con minori o persone disabili, o la trasmissione di malattie terminali tramite contatto sessuale con la condanna a morte.

Attualmente, il disegno di legge è bloccato, presumibilmente a causa delle pressioni internazionali. Si ritiene che le minacce di Unione Europea, Stati Uniti e Fondo Monetario Internazionale di ritirare aiuti finanziari per oltre 40 miliardi di dollari abbiano giocato un ruolo cruciale nel fermare l’approvazione della legge. 

Tuttavia, la spada di Damocle pende ancora sulle teste di migliaia di cittadini, che attendono con apprensione i futuri sviluppi. Nonostante le preoccupazioni generate dal pendente disegno di legge, recentemente si è accesa una flebile luce di speranza.

La Corte Suprema del Kenya ha infatti emesso un’ordinanza temporanea che proibisce agli attivisti anti-LGBTQ di incitare all’omicidio nei confronti della comunità LGBTQ+ del paese – qualcosa di scontato dalle nostre parti, ma che non è affatto assicurato nei paesi africani dove l’omosessualità è considerata illegale, e dove talvolta sono gli stessi capi di stato ad incitare la violenza contro le minoranze sessuali.

Si tratta però solo di una misura cautelare temporanea, in vigore mentre la corte esamina una denuncia avanzata da varie organizzazioni per i diritti umani relativa alla possibilità per le autorità legali cittadine di autorizzare manifestazioni anti-LGBTQ che promuovono la violenza contro i cittadini queer.

Dopo che il capo della polizia di Mombasa, il Generale Japhet Koome, ha permesso ad organizzazioni anti-LGBTQIA+ di agire inaudita violenza, enti come la Commissione Nazionale sui Diritti Umani, Amnesty International-Kenya, la Commissione per i Diritti Umani del Kenya e la Commissione Nazionale per la Coesione e l’Integrazione hanno fatto appello alla corte per sollecitare un intervento urgente.

La decisione è stata scaturita anche dalle accuse mosse contro il parlamentare Mohamed Ali, il quale, insieme ad altri rappresentanti del movimento anti-LGBTQIA+, avrebbe esortato la popolazione a perseguitare e uccidere persone gay e lesbiche, o a costringerle a lasciare il paese.

L’ordine, emanato dalla giudice Olga Sewe, mette al bando qualsiasi tipo di chiamata alle armi contro la comunità LGBTQIA+, che si tratti di violenza, incitamento alla conversione e minacce di espulsione dal paese.

Nel testo della denuncia presentata dalle organizzazioni per i diritti umani coinvolte, si parla di oltre 100 casi di violenza, sfratti coercitivi e diniego di servizi direttamente causati dalle proteste anti-LGBTQIA+. Si ipotizza inoltre che tali proteste abbiano portato alla chiusura di almeno 20 strutture sanitarie focalizzate principalmente sulla salute sessuale e la prevenzione e cura dell’HIV.

Attualmente, gli atti sessuali con persone dello stesso sesso sono illegali in Kenya, facendo seguito a leggi dell’epoca coloniale, e sono punibili con fino a 14 anni di carcere.

Il clima ostile è corroborato anche da una popolazione tradizionalista e fortemente influenzata dalla dottrina cattolica: secondo i più recenti dati raccolti dal Pew Research, solo il 9% dei kenyoti è favorevole al matrimonio egualitario.

Nonostante le sfide, la comunità LGBTQ+ kenyota continua a nutrire speranze. Nelle principali città, e in particolare nella capitale Nairobi, fioriscono vivaci comunità LGBTQ+. Organizzazioni influenti come GALCK+ sono in prima linea nella difesa dei diritti, e ulteriori recenti sentenze della Corte Suprema hanno consolidati almeno le libertà fondamentali per questa fascia della popolazione, riconoscendone il diritto di riunione e permettendo alle organizzazioni di difesa di registrarsi come entità no-profit.

Nella sua dichiarazione riguardo alla recente sentenza dell’Alta Corte, il Centre for Minority Rights and Strategic Litigation ha ricordato: “Vogliamo sottolineare ancora una volta come la cultura dell’odio abbia diviso le nazioni e lasciato ferite non rimarginate, mentre i paesi che hanno saputo accogliere e valorizzare la diversità hanno prosperato in ogni ambito.

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