Nei giorni di caos calmo dell’epidemia da Covid 19, il dibattito pubblico si era infuocato di nuovo intorno al corpo del malato e ai temi medici, politici e umani del morbo e delle infermità. A distanza di un po’ di tempo da quegli snodi più caldi, spesso ancora oggi, quel discorso torna a riaccendersi e chiama in causa testimonianze del passato che hanno significati e significanti validi anche nel nostro tempo. Tra queste, Sulla malattia di Virginia Woolf e Malattia come metafora/L’AIDS e le sue metafore di Susan Sontag. Due testi agli antipodi, scritti in epoche diverse e riferiti a contagi diversi, accomunati però dall’intento di incidere e penetrare la superficie della narrazione patologica e diagnostica.
Cosa si nasconde dietro al discorso sulla malattia? In che modo viene manipolato dal potere politico?
Interrogativi, questi, che stanno alla base degli assunti di Woolf e Sontag e che sono tornati a bussare alle nostre porte proprio in concomitanza dei recenti episodi pandemici, complici di aver riportato i virus sulla punta delle nostre lingue. Per parlare di Covid si è parlato di Hiv, sono stati tracciate linee di demarcazione e sono stati fatti bilanci. Un po’ per coincidenza e un po’ contingenza, un po’ per caso e un po’ no, l’Hiv è tornato a occupare un ruolo fondamentale, una parte centrale sul palcoscenico socio-culturale e letterario del nostro paese. Nel 2021, tra un lockdown e l’altro, la serie tv Netflix Pose giunge alla sua terza stagione e racconta gli anni in cui l’Hiv è la prima causa di morte tra gli americani più giovani. È il 1994, l’AZT non funziona come dovrebbe e il sistema sanitario privilegia dà accesso facilitato alle cure alla popolazione bianca. E la questione epidemiologica si interseca così a quella razziale.
Più o meno nello stesso periodo, sempre Netflix distribuisce SanPa, la docu-serie che accende un faro sulla comunità di San Patrignano e su Vincenzo Muccioli, il boia e il patriarca, l’Isacco e il salvatore che ha diviso (e continua a dividere) l’opinione pubblica per via dei suoi metodi e delle sue repressioni. Il discorso intorno alle droghe che negli anni Settanta falcidiavano i giovani italiani porta con sé una denuncia diretta contro la connivenza dello Stato, mai capace davvero di farsi carico di una questione annosa e letale, e una riflessione intorno all’HIV. La serie, infatti, non mente né mistifica – semmai omette o allude soltanto là dove non ci sono evidenze – quando si tratta di ragionare intorno ai punti di comunanza tra le droghe e la malattia.
Anche la letteratura torna così a occuparsi del tema. Dopo il fenomeno Febbre, il romanzo ormai cult di Jonathan Bazzi (che presto sarà un film), che ha squarciato il velo di maya che copriva lo stigma legato all’HIV (il suo primo coming out come hiv+ dalle pagine di Gay.it), l’editoria italiana è tornata a dimostrare interesse intorno alle testimonianze dei corpi contagiati. Così, nel 2021, Einaudi porta in Italia I grandi sognatori, il romanzo di Rebecca Makkai ambientato a Chicago nel 1985, in piena epoca Reagan, mentre la nuova epidemia di AIDS si diffonde per la città, trasformando la comunità LGBTQIA+ in un girone infernale verso cui puntare il dito per frugare alla ricerca folle e spasmodica di un untore. Un romanzo bellissimo e una testimonianza che racconta i fatti e la verità propria della narrativa, scavando nell’animo umano, mettendo come San Tommaso le falangi nelle ferite ancora aperte.
Così, l’anno scorso, la casa editrice GOG riscopre Hervé Guibért pubblicando All’amico che non mi ha salvato la vita, un romanzo – di cui vi abbiamo già parlato – che dà voce a un corpo contagiato che si rifiuta di restringersi al ruolo della vittima o dell’untore, che non vuole rinunciare allo slancio vitale insito nel gesto del vivere, e dunque scrive e racconta tutto e infrange ogni tabù e sfida ogni pudore e corre nudo e si lascia guardare mentre urla di essere vivo, mentre scrive per essere vivo, perché la vita è sì fragile, sempre, ma «non sa che farsene dell’ingombro di un’agonia». Quello di Guibért è un testo fondamentale non solo per il suo valore biografico-testimoniale (Guibert raccontando di sé, racconta anche dell’amico e amante Muzil, alter ego dietro il quale si cela il filosofo Michel Foucault) e per la lingua infuocata e preziosa con cui procede, ma anche e soprattutto perché supera il binomio che vede la persona che ha contratto l’HIV come una vittima senza speranza né, accartocciata su sé stessa e sul ricordo di un passato privo di morbi e terapie. Hervé Guibért sembra dunque essere d’accordo con Susan Sontag quando scrive: «Odio sentirmi una vittima, è una sensazione che non solo non mi dà piacere, ma mi provoca anche molto disagio».
Ancora più di recente, il tema del contagio di HIV è tornato ad affollare le pagine di alcuni libri italiani molto interessanti. In La paura ferisce come un coltello arrugginito (Nottetempo), l’esordiente Giulia Scomazzon racconta la sua storia di figlia che ha perso la madre per via dell’HIV, a metà degli anni Novanta quando l’informazione intorno al virus era ancora oscura e sfilacciata, le cure non efficaci come quelle di oggi e lo stigma si appiccicava sui corpi e tra le gambe di prostitute, tossicodipendenti e omosessuali. Giulia ha solo cinque anni quando la madre muore, lasciando dietro di sé un vuoto incolmabile e un silenzio impenetrabile. Protetta dal padre e dalla nonna, Giulia convive con quello strapiombo e solo molti anni dopo – guidata dalle orme di Christa Wolf e di una terapeuta attenta – decide di fare i conti con l’assenza, di immergersi nel suo passato non per riemergerne nuova, ma per venire a patti con una memoria latente e imperfetta, con un ricordo che funziona a intermittenza, come una lampadina che sta per rompersi. Scomazzon non si illude – e non ci illude – di riuscire a scrivere un memoir capace di cristallizzare i ricordi e di rendere tridimensionale il fantasma della madre, ma anzi dichiara apertamente di vagare intorno agli interrogativi aperti, ai segni sbiaditi, alle tracce appena accennate. E così La paura ferisce come un coltello arrugginito, che nel titolo si ispira a Cheever, racconta la storia di una «consumatrice di eroina, operaia, malata di AIDS, madre amorevole», che canta Dalla, Mango e Anna Oxa mentre cucina il tiramisù, ma anche le vicende di tutta un’epoca in cui l’HIV era la seconda causa di morte tra le giovani donne italiane, un’era tumultuosa di fabbriche e di droghe.
Anche Elena Di Cioccio, attrice e conduttrice televisiva, ha di recente raccontato la sua storia tra le pagine di un romanzo dal titolo splendido e puntuale, Cattivo sangue (Vallardi). Un libro che ha avuto una gestazione lunghissima e che arriva inaspettato dopo ventuno anni di silenzio. Tutto inizia l’11 febbraio 2002: Elena fa i consueti esami di routine, gli esiti non arrivano, lei si preoccupa, poi si preoccupa ancora di più, poi la verità. È sieropositiva. Seguono giorni di silenzi e stordimento, poi i primi coming out, con le amiche e la sorella, con i genitori e con il fidanzato. Seguono le consapevolezze, il coraggio e le difficoltà, addirittura le discriminazione e le violenze. Dal 20o2 a oggi le cose sono cambiate, almeno in parte. Le terapie funzionano e il dibattito, come stiamo vedendo, ha fatto passi da gigante. Anche se purtroppo lo stigma resta – è edulcorato, certo, senz’altro ammorbidito, ma resiste e persiste – per questo un libro come Cattivo sangue è così importante. Perché è accessibile, sfrontato e così popolare che diventa un inno di libertà irresistibile.
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