Il 10 febbraio scorso è uscito in liberia edito da HarperCollins “Una Storia Comune. Sanpa: Io, noi, tutti“, libro di Carlo G. Gabardini, autore della docuserie Netflix arrivata in streaming a fine 2020 e presto diventata virale, con un dibattito andato avanti per mesi.
“Perché occuparsi della storia della comunità di recupero di San Patrignano? Perché raccontarla oggi?”. È quello che si è domandato Gabardini quando gli è stato proposto di realizzare un doc sulla comunità e sul suo fondatore, Vincenzo Muccioli. Iniziando a fare ricerche durate anni, Gabardini ha intrapreso un viaggio di scoperta, che è anche un viaggio nella memoria. La memoria di una generazione, i nati tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’80 che in modi diversi hanno avuto a che fare con la diffusione dell’eroina, con la fascinazione per la dissoluzione, con il disagio di quando, bambini, si incontrava un “drogato”, un disagio che forse sottintendeva la paura di diventare così, una volta cresciuti.
La storia di San Patrignano è davvero una storia comune, che mischia il pubblico, il racconto di quegli anni divisi tra una fiducia sconfinata nel presente e la paura che qualcosa di inesorabile stesse per accadere, e il privato, nel caso di Gabardini la scoperta della propria omosessualità e le difficoltà che questo può comportare in una società che a volte dà l’impressione pensare che sia meglio essere assassini che omosessuali. Costruito come un collage, alternando la ricostruzione delle indagini che hanno portato alla realizzazione dell’acclamata docuserie Netflix, a quella dell’Italia degli anni ’80, alle proprie vicende familiari e personali, come la drammatica storia di Marco, che realizza il proprio orientamento omosessuale quando ha già una moglie e due figli, Una storia comune è in parte memoir, in parte saggio, in parte inchiesta, in parte metariflessione sul raccontare la realtà.
Ne abbiamo parlato direttamente con lo scrittore, drammaturgo, attore e speaker radiofonico, che ha scritto spettacoli per Paolo Rossi, Sabina Guzzanti, Enrico Bertolino, Beppe Battiston, nonché celebre autore e co-protagonista delle prime cinque stagioni di Camera Café negli abiti di Olmo.
Partirei dalla fine del libro come doveroso inizio di quest’intervista. Perché dar vita ad un romanzo che vuol essere un documentario su uno sceneggiatore che si chiede se e come scrivere una docuserie su una comunità di recupero degli anni ’80 mentre ne sta scrivendo il diario emotivo e vorrebbe in realtà trasformarlo in uno spettacolo teatrale?
Cosa vuol dire fare un doc, cosa sia vero e cosa sia finto, dov’è il confine tra vero e falso, tra l’etichetta di narrazione, autofiction, romanzo, meta-narrazione, saggio. Mentre lo scrivevo me lo sono domandato anche io, cosa è questo libro? Dobbiamo iniziare ad abitare la complessità, ognuno può etichettarlo come vuole.
Oltre due anni e mezzo di lavoro per arrivare ad una docuserie di 5 ore. Con Sanpa vi siete buttati in un progetto apparentemente folle, riaccendendo i riflettori nei confronti di un formato nobile e all’estero sempre più battuto. Si potrebbe fare qualcosa di simile anche nei confronti della storia del nostro movimento? C’è un episodio in particolare, o un personaggio, che a tuo avviso potrebbe funzionare.
Assolutamente sì, è una cosa che vorrei fare, sto cercando di fare. Penso che sia assolutamente da realizzare. C’ho pensato tantissimo, tantissime storie singole. Il delitto di Giarre, i balletti Verdi, la nascita del Fuori, il caso Braibanti, la storia dei Pride. Non necessariamente storie tragiche. A me sembra interessante quanto questo raccolti l’Italia, la storia del pregiudizio, la storia della discriminazione veicolata dai mezzi di comunicazione. Mi interesserebbe molto quel lato lì, ovvero il come sia stato presentato l’omosessuale quando io ero un ragazzino. A me piacerebbe occuparmene, guardare ad un arco più ampio.
San Patrignano, scrivi in più occasioni, non ha riguardato solo i cosiddetti tossici, bensì l’Italia intera. Passati 30 anni di droga si parla sempre meno, come se non fosse più una problematica sociale. Ma così non è. Perché.
Questo non è tanto un libro su Sanpa, bensì un libro su noi, oggi. Il fatto che Sanpa abbia riaperto una storia che abbiamo fatto finta di dimenticare, ha ridato forza al dibattito su come sia stata gestita la questione droga. L’abbiamo relegata a quella generazione di scoppiati, erano loro e soltanto loro. Ma sappiamo benissimo quanto non sia così. La droga c’è tutt’ora, tutti noi nati in quel periodo siamo un po’ dei sopravvissuti, non era un problema limitato di alcuni. Da Wikipedia leggiamo che la droga è un ‘cambio psicofisico momentaneo’. Ma chi è che non ne ha bisogno, di questo? Come molti ex tossici ci hanno ricordato, la droga è un sintomo e dovremmo occuparci del malessere, e il malessere è rimasto. Anche oggi lo Stato appare impreparato. I dati dimostrano che ci si droga più di prima. L’eroina l’abbiamo a lungo giustamente criticata perché vedevamo degli zombie in giro per la città, però li vedevamo. Vedevamo i suoi effetti. Ora sento dire di gente che è rimasta sotto con le pillonine, con gli acidi, ma non le vediamo perché non sono per strada bensì in delle strutture specifiche. Ma così non abbiamo risolto il problema.
Nell’ultima settimana, poi, abbiamo visto la Corte costituzionale bocciare un referendum sulla cannabis che ha riacceso il dibattito in modo puntualmente fuorviante.
È impossibile non ricordare la legge che proprio con questo quesito referendario bocciato si voleva modificare, quella legge è la Iervolino Vassalli del 1990. Una legge uscita da San Patrignano, scritta tra virgolette anche da Vincenzo Muccioli che equiparava le droghe leggere alle droghe pesanti e soprattutto il consumo allo spaccio. In quel momento, con quegli zombie in giro, a furor di popolo venne approvata una legge che riempì le carceri di persone arrestate per uno spinello. Ce la siamo un po’ dimenticata quella legge, con questo quesito referendario si può riaprire un dibattito. È saggia oggi come oggi quella legge lì? Si può equiparare uno spinello all’eroina?
Nel romanzo parli anche dei tuoi trascorsi con la cocaina, di come ne sei uscito a fatica e di quanto fosse abituale trovarla in certi ambienti. Che ricordi hai di quel periodo.
Non ho ricordi tanto di quel periodo specifico ma il fatto di ammetterlo, di dirlo, anche perché non mi sembra affatto scandaloso, si parla di 20 anni fa. Poi mi sembrava doveroso dirlo nel momento in cui incontro qualcuno e capisco l’uso che ne fa. Mi sembrava interessante capire quel tipo di meccanismo, quando qualcuno si trova costretto a farne uso per alterarsi, per trovare il coraggio di dire chi sia, fare coming out, in relazione ad un orientamento sessuale o a qualsiasi altro aspetto privato. Nel momento in cui ne scrivo mi sembrava il minimo essere onesto anche con la mia di dipendenza.
In Sanpa non avete taciuto la presunta omosessualità di Vincenzo Muccioli, perché a tuo avviso ‘caratteristica tutt’altro che secondaria’ di questa vicenda. Puoi essere più specifico. Perché avete ritenuto fosse importante parlarne.
È un argomento spinoso, e non so se mi faccia arrabbiare o ridere il fatto che sia così spinoso. So che non si dovrebbe parlarne, ma ci rendiamo conto che stiamo parlando di qualcuno che si sente diffamato perché qualcun altro ha detto che ha sentito dire fosse omosessuale? E’ assurdo, in Italia non è mai stato reato. Non è un insulto. Mi sembrava doveroso anche tornarci, nel libro. Per me è stato un pensiero, e ti confesso anche che è stato il momento in cui ho avuto la sensazione che lui si innamorasse, non che Sanpa fosse il suo harem. Magari mi sbaglio, ma mi ha fatto una tenerezza incredibile proprio per il fatto che fosse evidente che non potesse fare coming out. In un doc sul mondo LGBT potrebbe starci anche Muccioli. La storia di Sanpa tocca poi tantissime altre questioni, quindi abbiamo fatto una scelta specifica, che non diventasse troppo ingombrante. Perché se l’avessimo messo nella prima puntata sarebbe sembrato un attacco frontale. Che è poi il pensiero che fa Red Ronnie, che racconta l’Italia: “Quando non sanno più cosa dirti, quando ti hanno dato dell’assassino, del criminale, cosa vuoi che ti dicano, cosa vuoi che gli resti? Frocio!”. Mi fa un po’ ridere che bisogna parlarne in punta di forchetta. Con gli altri autori ne ho discusso per due anni.
In tal senso i figli di Vincenzo Muccioli, Andrea e Giacomo, hanno querelato Netflix per diffamazione aggravata, perché a loro dire il padre è stato indicato come “misogino e omosessuale”, nonché morto di AIDS. A detta di Andrea e Giacomo, la docuserie avrebbe violato i più elementari principi di privacy.
Non posso parlarne perché la querela è in corso.
Viviamo in un’epoca in cui proliferano le fake news, con la tv che troppo spesso cede al “documentire”, arte che tu definisci sottile, complessa e manipolatoria. Ma qual è il confine tra verità e menzogna, chi stabilisce cosa sia oggettivamente autentico, soprattutto dinanzi ad una vicenda tanto dibattuta.
È un confine labile. Tutti noi ci appoggiamo alla memoria, pensa ai processi che sostenzialmente si fondano sulla memoria di chi punta il dito contro qualcuno facendo leva sui propri ricordi. Nel fare ricerche per Sanpa, tante cose non le ricordavamo, o le ricordavamo diversamente. Questo è uno dei motivi per cui va preservato questo terreno comune, un comune sentire su come siano realmente andate le cose. Spesso queste storie non ci vengono raccontate o vengono raccontate da una posizione di parte. Per questo motivo noi non abbiamo voluto una voce narrante nella docuserie. Sul fronte notizie, è complicato capire chi possa deciderlo. Nel momento in cui discrediti vecchie e polverose istituzioni e decidi che tutto è il mano al click, è quasi impossibile controllare, ti dici che forse la notizia più vera è quella più cliccata, ma lì entriamo in un bel pasticcio.
Visto lo straordinario e forse inatteso successo della docuserie, nonché l’enorme quantità di materiale raccolto in 2 anni e mezzo di lavoro, Netflix vi ha chiesto una nuova stagione di Sanpa, replicando di fatto quanto accaduto negli Usa con Tiger King?
Noi spesso ci diciamo “però sarebbe bello fare Sanpa 2”, che andrebbe a parlare di San Patrignano dal 1995 ad oggi. Esiste come ipotesi, ma al momento non ne stiamo seriamente parlando.
In questo momento stai lavorando ad un nuovo progetto seriale con Gianluca Neri?
Sì, un progetto crime. Ma qui devo fermarmi perché ho firmato 180 pagine di accordi di segretezza (ride).
Tra i ringraziamenti finali ce n’è uno particolarmente sentito. Al tuo amato Moreno, “perché la vita senza di lui sarebbe insopportabile”. Una bellissima dichiarazione d’amore.
Lui è veramente indispensabile, siamo all’interno del settimo anno. E siamo molto felici.
Chiudiamo spostandoci sull’attualità. In pochi mesi abbiamo visto un Parlamento che applaude l’affossamento di una legge contro l’omotransfobia, una Corte costituzionale che stralcia quesiti referendari su cannabis ed eutanasia legale, partiti che presentano proposte di legge per vietare la GPA anche all’estero, politici che diffamano le famiglie arcobaleno e un matrimonio egualitario che mai prende realmente forma all’interno del dibattito politico. Come guardare con fiducia al domani?
Con questa classe politica, più della sopravvivenza mi sembra difficile chiedergli. Ma ci sono cose urgentissime da fare. Dopo le unioni civili del 2016, il tempo è ora finito. Il matrimonio egualitario è la battaglia che riassume tanti temi. È il passo successivo, doveroso, è il minimo. Bisogna riprendere subito la battaglia. È un problema più che attuale. Ma viene difficile avere fiducia in questa classe politica. Nel 2022 viene respinto il referendum su cannabis ed eutanasia legale adducendo motivazioni lessicali e grammaticali, è sconfortante. Bisogna farle queste leggi. E ricordarci chi stiamo votando, quando andiamo alle urne. Anche in ambito LGBT, penso alle persone LGBT che votano a destra, la destra italiana, perché non ci si può fermare all’ambito economico. C’è un macigno che pesa sulle loro teste.
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